Antonio Pennacchi, una “vita scriteriata”. Scriveva per raccontare storie con l’Agro Pontino nel cuore

4 Ago 2021 10:06 - di Gloria Sabatini

Uomo ruvido, scrittore potente. Antonio Pennacchi, classe 1950, morto ieri troppo presto nella sua Latina, era un narratore. Un aedo di storie intime, personali. Affresco di vissuti che fotografano pezzi di vita italiana del dopoguerra.

Pennacchi, scrittore potente con l’ossessione dell’Agro Pontino

Autore di libri molto amati a destra e a sinistra, scrisse Fascio e martello. Viaggio nelle città del duce, ma anche il Fasciocomunista: vita scriteriata di Accio Benassi. Da cui fu tratto il film  Mio fratello è figlio unico. Grande successo al botteghino, premio speciale al Festival di Cannes, accompagnato dalle polemiche dello scrittore. Che attaccò il regista perché nella seconda parte del film la trama del libro era stata stravolta.

“Scrivo perché devo raccontare delle storie”

“Io non scrivo per la voglia di scrivere che anzi non ne ho per niente. Ma perché devo raccontare delle storie”. Doveva. Operaio per trent’anni alla Fulgorcavi di Latina, laureato in lettere e filosofia, era spiazzante, semplice e complicato. Linguaggio veneto-pontino (la mamma era veneta), strapazzava i luoghi comuni. Il suo viaggio nella politica nasconde un’inquietudine ben dissimulata dalla sua guasconeria.

Celebri i suoi duelli verbali

Fumantino, urticante. Con il suo immancabile cappello nero e sciarpa rossa. Celebri le sue ‘scapocciate’. La più memorabile, forse, quella con Matteo Salvini, ospiti de La 7. Si parla di immigrazione e di ‘modello lombardo’. Il leader leghista attacca, incauto. “Va bene come vuole lei, la Lombardia è la patria di tutte le mafie. Così è contento”. “Ma perché fai sempre sto ca***o di batuttine. Studia prima di fare le battutine”. E Salvini: “Ho studiato, ho fatto anche il liceo classico. Pensi sapevo anche il latino e il greco”. “E com’è che poi s’è rovinato a ‘sta maniera’? La sua mamma lo avrebbe dovuto riempire di botte da ragazzino”.

Da Il fasciocomunista a Canale Mussolini

Il protagonista del Fasciocomunista è lui. Nel romanzo c’è la sua giovinezza a cavallo tra gli anni  ’60 e ’70. “Sempre litigioso, polemico, rompiscatole”, diceva il fratello Gianni Pennacchi, giornalista parlamentare di lungo corso. Socialista e ‘compagno” (ma la vera comunista è la sorella Laura), morto alcuni anni fa mentre arrampicato sulle scale decorava il suo albero di Natale. Controcorrente per natura. Di Berlusconi disse ” uno come lui i veri fascisti l’avrebbero preso a bastonate”. È lo stesso che quando la sindaca Raggi, nel novembre 2017, mise i sigilli alla storica sezione missina di Colle Oppio scese in campo con le baionette. “Solo un barbaro incolto – senza scuola, senza storia, senza studi – può permettersi di disconoscere il ruolo fondamentale svolto dai partiti politici in questo Paese negli anni Cinquanta e Sessanta”.

Il flop della sua lista elettorale per Latina

Visionario, nel 2011 si imbarcò perfino nell’avventura di una lista elettorale. Un progetto futurista, dicevano. Forse una rivoluzione senza ali, direbbe Giorgio Gaber, un sogno rattrappito. Non andò benissimo. La lista conquistò appena 831 voti, l’1%. Tutti a ironizzare sul flop. Ma lui quasi divertito. “Se risulterà che ho preso i voti sarò contento. Sennò peggio per voi, per chi non ha creduto nella mia proposta. Io resto della mia idea. Alla fine un lavoro ce l’ho”. Più recente la lettera aperta a Giorgia Meloni. “Cara Giorgia ti prego: dite di sì all’unità nazionale”, chiedeva alla vigilia della nascita del governo Draghi.

L’affresco dei coloni veneti sbarcati nella terra pontina

Canale Mussolini è la sua opera più nota. Un fiume in piena. È la storia di una famiglia contadina, i Peruzzi, sradicata dalla sua terra d’origine nella bassa padana per andare nell’Agro Pontino. Bonificato dalla malaria dal fascismo. Lì  arrivarono molti coloni emiliani, veneti e friulani. Capeggiati dal carismatico e coraggioso zio Pericle, fascista.

L’ultimo romanzo, La strada del mare,  è ancora un affresco con l’Agro Pontino protagonista. Un pallino il suo, una “condanna” diceva. “Finirà quando me ne andrò. O quando con la testa e non sarò più in grado di lavorare. Anche se mi sono stufato, avrei tanta voglia di smettere… Dopo una vita a combattere per l’eguaglianza di tutti gli esseri umani e contro l’ingiustizia che lo faceva arrabbiare anche a 70 anni.

Il cordoglio trasversale e la retorica di rito

A poche ora dalla notizia della morte è un coro di commenti, ricordi, testimonianze. Con un pizzico di retorica che non gli sarebbe piaciuta. Tutti a ricordare che Pennacchi “ha saputo raccontare la città, Latina, come nessun altro”. Tutti a osannarlo,  anche i detrattori. Come sempre quando ‘qualcuno’ passa a miglior vita. Ma questa è un’altra storia.

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