Nelle università gli studenti sono stufi del dogma transgender: lo racconta The Economist

21 Giu 2021 19:39 - di Adele Sirocchi
transgender

Basta con il dogma transgender nelle università del mondo anglosassone. Se ne occupa l’Economist in un articolo che prende le mosse dal caso della docente di criminologia Jo Phoenix. La quale, invitata all’Università di Essex per un seminario, si è vista contestare dagli studenti in quanto colpevole di transfobia. L’incontro è così saltato mettendo a repentaglio la reputazione della professoressa.

Il caso della docente Jo Phoenix

Riguardo all’essere descritta come una nemica dei trans la docente la docente ha dichiarato alla BBC: “È semplicemente ridicolo dire che qualcuno è transfobico perché desidera mettere in discussione e comprendere l’attuazione delle politiche di identificazione personale in un contesto carcerario”.

Il rapporto Reindorf contro l’ideologia gender

L’università di Essex – racconta ancora l’Economist – ha chiesto all’avvocato Akua Reindorf di avviare un’indagine. Dopo diciotto mesi, l’avvocato ha elaborato un rapporto in cui accusa l’università di avere violato il diritto alla libertà di espressione della docente suggerendo ai vertici dell’ateneo di scusarsi. Il rapporto di Reindorf rappresenta un ostacolo al “dogma transgender”. Un dogma che sostiene che l’identità di genere – l’idea soggettiva di essere uomo o donna – abbia la stessa importanza del sesso biologico, che è un fattore oggettivo. E che le persone trans dovrebbero essere considerate in ogni circostanza come il genere con cui si identificano.

Il caso della professoressa Donna Hughes

Il punto è: si può discutere questo dogma? In alcuni casi, gli accademici che si sono opposti “all’ideologia del gender” hanno perso il loro posto di lavoro e sono stati vittime di abusi. Tuttavia, scrive l’Economist, gli effetti più preoccupanti sono invisibili. Un numero imprecisato di dipendenti universitari ha paura di esprimersi perché teme di danneggiare la propria carriera. Un esempio? A febbraio, quando Donna Hughes, professoressa di studi femminili alla Rhode Island University, ha pubblicato un articolo critico nei confronti dell’ideologia di genere, sono spuntate petizioni che chiedevano il suo licenziamento. La sua università l’ha denunciata e ha avvertito che il diritto alla libertà di parola “non ha limiti”.

La cultura della paura nelle università

Il rapporto sull’università di Essex descrive una “cultura della paura” per chiunque non crede alle teorie del gender. Il rapporto di Reindorf, scrive l’Economist, darà voce ai docenti che non credono a questa ideologia. In effetti, molti segnali indicano che la resistenza sta crescendo a dismisura, specialmente nelle università. Questa battaglia mette insieme i conservatori e le femministe di sinistra, la cui priorità è mantenere gli spazi riservati alle donne. Nel Regno Unito la maggior parte delle docenti gender-critiche sono donne atee, di sinistra e femministe. Lo stesso succede in America.

Si può discutere il dogma transgender?

L’Economist si domanda come sia possibile che nelle università, luogo riservato al dibattito, sia così radicato il dogma transgender e come sia possibile l’obbedienza a un’ideologia che non contempla il dissenso. Secondo la rivista, le due ragioni sono il potere enorme dei gruppi pro-trans e l’affinità tra la battaglia per i diritti dei trans e quella per i diritti dei gay.

Segnali di resistenza e ribellione tra gli studenti

Tuttavia, cominciano a emergere segnali di resistenza verso questa nuova ideologia proprio tra gli studenti, anche se molti di loro hanno ancora paura di esprimersi in pubblico.

Un altro caso clamoroso relativo al dogma transgender è quello di Maya Forstater che non ha rinnovato il suo contratto presso il think tank Center for Global Development dopo aver pubblicato una serie di tweet che mettevano in dubbio i piani del governo per consentire alle persone di dichiarare il proprio genere. Maya Forstater ritiene che le donne trans in possesso di certificati che riconoscono la loro identità transgender non possano definirsi donne. E secondo il giudice del lavoro che ha esaminato il suo caso questa visione “non è degna di rispetto in una società democratica”.

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