I dubbi omerici ai tempi del Covid: rischiare per vivere o cercare un senso all’esistenza?

14 Apr 2021 19:59 - di Riccardo Pedrizzi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Di fronte alla tragedia della pandemia da Covid-19, a voler semplificare, gli atteggiamenti sono stati di due tipi cosi come, gli orientamenti della maggior parte di noi: il primo è stato quello di isolarsi, rinchiudersi in casa di campagna al mare come in un castello fortificato, nelle seconde case, nei cosiddetti buenos retiros lontano dal mondo e da tutti per assicurarsi la salute ed il benessere; il secondo è stato e continua ad essere quello di chi, pur consapevole del pericolo di morire sta di fatto sfidando la sorte ed il destino.

Questi comportamenti, volendo andare in profondità, si fondano su visioni del mondo, su contrapposti valori in base ai quali poi si fanno scelte esistenziali e di vita, che da sempre hanno mosso gli uomini di tutti i tempi e di tutte le civiltà. Basterebbe ricordare storie e legende cosi come ci sono state riportate dall’antichità. Mi sovviene a tal proposito Omero e la descrizione dei sentimenti dei protagonisti che ne fa di Ulisse.
In particolare nel quinto libro dell’Odissea, che più degli altri, ci fa penetrare nello spirito vero di tutto il poema ed, in particolare, nella prospettiva nella quale aleggia anche l’ombra della morte, perché Calipso è forse anche una dea della morte, e la sua isola – boschi rigogliosi, viti, fresche acque, morbidi prati fioriti – è un paesaggio meraviglioso e idilliaco, ma anche sinistro per il suo immobilismo nel tempo.

Isola simbolo di una dimensione interiore, di un’esistenza silenziosa e statica, preservata da ansie vitalistiche e da dolori, può essere intesa anche come meta da raggiungere, obiettivo umano che mette in moto forze ed energie interiori: in altri termini la vita e quella immortale, in particolare (questo l’atteggiamento di chi si allontana dal mondo in questa pandemia).

Nel V libro viene confermata l’immagine che di Ulisse il proemio aveva inizialmente offerto. Egli è un uomo che ha molto sofferto e che ancora vive la sua esperienza di dolore. Eppure la sua forza d’animo appare tutt’altro che piegata, è pronto a nuove sofferenze, a nuovi cimenti. Per lui Itaca è il luogo della sua dimensione di uomo tra gli uomini, di re, di sposo, di padre, luogo necessario per il recupero della propria identità, centro fisico del proprio destino; Itaca è la sua isola di Thule, il suo santo Graal, la sua patria dell’anima, tornarvi perciò è e rappresenta il bene più grande.

Calipso propone ad Ulisse di diventare immortale e immune da vecchiaia, ma egli rifiuta, perché la sua sorte è quella di conoscere fino in fondo il destino, la gioia, i dolori, i segni, le avventure, il tempo dell’uomo, sebbene egli sappia tante cose che gli altri ignorano o intravedono appena. L’eterna giovinezza e l’immortalità accanto a Calipso, dunque, non possono eguagliare il valore di Itaca. Eternamente ad Ogigia, Odisseo resterebbe un eterno eroe mancato. L’astuto Odisseo, l’uomo che conosce la mossa giusta, al momento opportuno, coglie la sua occasione e sfugge alla insidie della bella Calipso.

Tra le nebbie di Ogigia, che promette immortalità fuori dal tempo e dallo spazio, e il sole di Itaca legato ad una mortalità che può dare senso all’esistere, il greco Odisseo sceglie il sole ed il proprio destino, anche se amaro… di uomo. Eccolo allora lasciare Ogigia ed affrontare la tempesta del mare, fidando nella sua abilità di artigiano che costruisce la barca ed il marinaio, che conosce le insidie del mare (questo l’atteggiamento di chi sfida la sorte ai nostri giorni consapevolmente andando tra la gente ma rispettando le regole di precauzione).

Il luogo dove lo getta la violenza delle onde è in apparenza una delle mille incantevoli, luminose isole del Mediterraneo: l’isola di Scheria. Tutto, qui, evoca una vita lieta e tranquilla; la guerra di Troia, le risse di Itaca sono lontanissime e nulla sembra scuotere la fiducia che questa vita esclusivamente terrena ha in se stessa. Eppure Ulisse è penetrato, senza saperlo, nel mondo del mito. Ed è proprio sostando a Scheria, nel regno del mito, che Ulisse riacquista la dignità di eroe, che aveva perduta. Risolutamente però, volge le spalle anche al mito, tuffandosi nei mille colori, nei mille orrori, nelle mille menzogne del mondo reale.

Diceva Fernando Pessoa: “il mito è il nulla che è tutto. Lo stesso sole che apre i cieli è un mito brillante e muto il corpo morto di Dio, vivente e nudo. Questi, che qui approdò, fu per non essere esistendo. Così la leggenda scorre penetrando nella realtà, e fecondandola trascorre. In basso, la vita, metà di nulla, muore”. Proprio questo colpisce di Ulisse, il suo essere viaggiatore per eccellenza, colui che percorre in lungo e in largo il Mar Mediterraneo, spingendosi fino agli estremi confini, ai limiti stessi della conoscenza umana. (“fatti non foste a viver come bruti…”, gli farà dire Dante nella Divina Commedia).

Odisseo non è semplicemente il protagonista molto imitato di un poema greco; è una sorta di primo uomo letterario, antico ma sempre moderno proprio perché propone avventure e modelli di vita collettivi. Questi versi omerici celebrano una tipologia di eroe che, pur tentato da situazioni allettanti, pur stremato ed invecchiato dopo anni di prove e difficoltà, non dimentica la propria Itaca e riesce a farvi ritorno. La partenza dell’eroe, per andare a combattere a Troia, è dolorosa per l’abbandono della casa, della famiglia, ma è resa necessaria dalle priorità della patria o dall’intervento divino.

Ed è proprio quel doloroso bagaglio di prove che appongono Odisseo agli uomini e agli dei, che fortifica le sue doti, già superiori a quelle degli altri uomini. Si compie così un processo di iniziazione che rafforza la sua identità ed estende ovunque la sua fama. Questo Ulisse è l’eroe positivo, espressione di una civiltà matura in grado di apprezzare l’intelligenza più della forza fisica.

Egli rappresenta nel mondo omerico la “calliditas”, l’abilità scaltra che supera ostacoli insormontabili, la virtù vincente che consente all’uomo di plasmare la realtà in modo conveniente agli obiettivi che Egli si è proposto non solo per se stesso, ma per tutti gli altri cui sente il dovere di pensare. Impavido, regalmente rinuncia alle attrattive che tanto sono solite lusingare e condizionare gli uomini, ad una esistenza finalmente indolore. Senza cedimenti, si 3 dichiara pronto a percorrere ancora l’itinerario della sofferenza: “Sventure ne ho tante patite e tante sofferte tra le onde ed in guerra: sia con esse anche questa”.

È la grande rinuncia da parte di un personaggio di grande statura, deciso per cui la vis morale gli consente di non temere la realtà né l’essere uomo tra gli uomini; le nebbie di Ogigia non gli appartengono: l’immortalità soccombe di fronte ad una mortalità che sappia dare senso vero all’esistenza.

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