D’Annunzio si spegneva il primo marzo del 1938: genialità e identità allo stato puro

1 Mar 2021 14:45 - di Massimo Pedroni
D'annunzio

Sappiamo quanto sia importante, determinante la capacità di dare pubblicità a sé stessi, alla propria opera, o ai propri prodotti. Certo è che lo stratagemma attuato dal giovanissimo Gabriele D’Annunzio  per promuovere la sua raccolta d’esordio di poesia “Primo vere” è segnata da genialità assoluta, imprevedibile e senza precedenti.   In quella occasione, il futuro Vate, surclassò qualsiasi forma pubblicitaria praticata fino a quel momento.

La pubblicità

Il giovane poeta, fece diffondere infatti, con maestria, la notizia del suo avvenuto decesso a causa di una caduta da cavallo. Cosa che non corrispondeva al vero. La falsa notizia ebbe un effetto dirompente. Riverberi furono immediati.  Ad esempio, un’entusiastica critica alle sue poesie sul Fanfulla della domenica. Importante periodico dell’epoca. Insomma, l’oscuro fino ad allora, poeta pescarese era riuscito a fare accendere i riflettori su sé e la sua produzione poetica.

Era nato nella città abruzzese il 12 marzo 1863, in una famiglia benestante. Abbiamo riportato questo episodio, per sottolineare, fra i rilevantissimi meriti artistici del poeta, come sua peculiarità, questa grande capacità di autopromozione.  Elemento costitutivo di uno dei tratti caratteristici che segnarono tutta la vita del Vate. L’intuizione geniale era presente in tutti i settori nei quali si cimentava. E furono innumerevoli. Scrisse infatti romanzi, poesie, per il teatro il cinema e inventava nomi destinati al mondo della promozione pubblicitaria commerciale che rimarranno celebri come quello che coniò per i grandi magazzini della Rinascente. Ideò lui lo scudetto italiano.

Gli amori e l’arte

Sia la vita artistica che personale fu intensissima. Ebbe moglie, figli, e una rilevantissima quantità di relazioni, una da ricordare in particolare il sodalizio che instaurò con Eleonora Duse. L’attrice lo esorta a scrivere per lei dei lavori teatrali. Vedranno quindi la luce Sogno di un mattino di primavera, La gioconda e La gloria. Terminata la relazione con la Duse, D’Annunzio comunque continuò a scrivere per il palcoscenico. Scrisse molti romanzi tutti di grande successo ad esempio Il piacere, Il fuoco, Il trionfo della morte. Fu attivo anche come giornalista. Parallela alla sua già di per sé imponente produzione artistico letteraria, s’impegnò, con varie modalità, anche in politica.

La politica

Aspetto dell’attività sociale che esercitò su di lui una forte attrazione. Nel 1897, riuscì a farsi eleggere in Parlamento con formazione politica di Destra, per passare dopo poco tempo con la Sinistra, per protesta contro le “leggi liberticide” di Luigi Pelloux. D’Annunzio, accompagnò l’inaspettato riposizionamento con la celebre frase “vado verso la vita”. Da quell’esperienza trasse spunti, sollecitazioni, ovviamente filtrate e traslate dall’animo di un personaggio come il Vate che era principalmente un artista. Questa valenza comportava l’impossibilità di vivere e decodificare l’impetuosità degli eventi che si stavano stagliando sui destini del secolo nascente senza “vivere” intensamente la politica.

Quando D’Annunzio aveva poco più di cinquanta anni, gli equilibri sociali, politici ed economici, che in qualche modo avevano trovato una stabilizzazione durante “800, nel 1914 a seguito dell’attentato di Sarajevo, con l’uccisione dell’Arciduca d’Austria e consorte, per mano di un irredentista serbo – bosniaco, il puzzle di compromessi tessuti dalla diplomazia saltò definitivamente. Di fronte a forti sbandamenti dell’opinione pubblica nazionale, basti pensare la lacerazione in Italia tra Neutralisti e Interventisti, prevalse l’opinione di questi ultimi e l’Italia entrò nella Grande Guerra.

Poeta soldato

Il “900 cominciò a dispiegare il suo profilo incandescente. L’uomo di penna, non si smentì, trasformò in azione quanto da lui sostenuto nelle fasi precedenti l’inizio del conflitto. Fu un vero e proprio   asso nel portare a termine azioni di guerra veramente temerarie, quali l’episodio passato alla storia come la “Beffa di Buccari”. Operazione rischiosissima condotta con le motosiluranti tricolori ai danni del naviglio militare austriaco, di stanza nel porto di Buccari. L’impresa, oltre  il carattere militare in sé   ebbe un effetto galvanizzante in una opinione pubblica ancora prostrata dalla disfatta di Caporetto. O il lancio di volantini di propaganda lanciati su Vienna dall’aereo, con lo scopo di fiaccare l’animo belligerante dei viennesi.

Superfluo dire che il Vate, fin da subito si pronunciò a favore dell’Intervento. Per il suo audace comportamento militare, nell’immaginario collettivo nazionale, diventò “il poeta soldato”. Definizione che nella sua sobria semplicità coglieva l’essenza del sentire del pescarese. Partecipare, con la ferma semplicità del milite, nella bolgia dei sovvertimenti epici che attraversavano gli ordinamenti, politici, economici e valoriali dei popoli europei. In più di una foto lo si vede, assorbito da una umiltà complessiva, mentre consuma dalla gavetta il rancio come qualsiasi soldato.

Essere protagonista, testimone, cantore   della lettura, della epopea tragica dalla quale stava per essere travolto il vecchio continente. Comportamento, che versi e cavalli di frisia, come sempre in simili circostanze, s’intrecciano. Atteggiamento, già sviluppata nell’Epica, ad esempio avevano fatto i poeti cominciando   greci. Ma le sorti del conflitto, per quanto favorevoli all’Italia, giunti con le altre potenze vincitrici al tavolo delle trattative, dal quale sarebbero dovuti emergere i nuovi assetti internazionali, si accese la miccia dell’insoddisfazione, nel caso dell’opinione pubblica italiana di vera e propria ingiustizia subita.

Questo diffuso sentire nazionale, fu mirabilmente sintetizzato da D’Annunzio con la celebre frase “Vittoria mutilata”.  Oggetto principale di rivendicazione la Città di Fiume, che per complesse ragioni diplomatiche non era, come da accordi, stata assegnata all’Italia. Per 16 mesi, dal 12 settembre 1919 fino al tragico epilogo del cosiddetto “Natale di sangue”, D’Annunzio, capeggiando, nazionalisti, futuristi, sindacalisti rivoluzionari proclamò la Reggenza Italiana dl Carnaro. Episodio immaginifico, per la prima volta al mondo una città era nelle le mani alate di un poeta.

La Carta del Carnaro

Un faro di vita si accendeva, tra dispute più o meno nobili. Il socialista Alceste De Ambris, scrisse La Carta del Carnaro, che fu rielaborata e promulgata dal Vate, Reggente di Fiume. In essa si affermava come principio cardine l’appartenenza di Fiume all’Italia, di democrazia diretta, di giustizia sociale e sindacale e tanto altro che sapeva tanto di futuro. Previsioni normative che attingevano le fonti nell’Assemblea Ateniese, nella tradizione giuridica dei Comuni medievali. A commento di essa Giuseppe Bottai ebbe a dire: “Le dichiarazioni della Carta del Carnaro costituiscono la prima espressione del nuovo ordinamento spirituale e giuridico degli italiani”.

Il sogno di libertà, innovazione, coraggio e creatività, forgiato da   D’Annunzio il “poeta soldato” e dai suoi volontari, fu stroncato dai cannoneggiamenti della Marina Italiana. Giolitti, in ottemperanza ai nuovi Trattati Internazionali stipulati, inaugurava di fatto i primi bagliori di guerra fratricida, che come uno spettro nefasto investiranno la nostra comunità nazionale per tutto il “900. “La sensazione della corda nel cervello – che è per spezzarsi, che può spezzarsi. Il senso della morte improvvisa”. Come presago, alle 20,05 del1 marzo 1938 il Vate mentre era al suo tavolo da lavoro rimase fulminato da emorragia celebrale.

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