Giu 17 2019

Mario Landolfi @ 15:24

Tumori, dalle oncologhe uno stop ai viaggi della speranza: non sempre sono necessari

Non sempre un viaggio della speranza per la cura dei tumori si dimostra una scelta saggia. Spesso, anzi, può comportare conseguenze indesiderate. Ma tant’è: l’arrivo di una diagnosi di cancro deflagra all’interno di una famiglia come una bomba ed è la forza delle disperazione a imporre di aggrapparsi ad ogni speranza pur di vincere una malattia che in Italia è la seconda causa di morte. Tra queste, anche i cosiddetti i viaggi della speranza da un centro all’altro e dal Sud al Nord del Paese. Una soluzione, quest’ultima, scoraggiata dall’associazione Women for Oncology Italy che nel corso dell’evento promosso oggi alla Camera sul tema: «Donne che curano la famiglia» ha ribadito «che il viaggio verso altre strutture rispetto alle proprie di riferimento andrebbe fatto solo quando davvero necessario», vale a dire nei casi di tumori rari, protocolli di studio, pazienti con buon performance status. In questo senso, anche una pratica più consapevole e meglio gestita della cosiddetta second opionion potrebbe aiutare a bloccare i viaggi della speranza laddove non siano fondamentali per la certezza della cura o per la tempestività di una diagnosi specifica. L’associazione ha ricordato che secondo un’indagine del Censis «sono stati 750 mila i ricoveri in mobilità ospedaliera interregionale nel 2016», ai quali va aggiunto «lo spostamento correlato di almeno altre 650 mila persone, ovvero l’esercito degli accompagnatori e dei familiari». Il totale è impressionante: circa 1 milione e mezzo di persone con la valigia costantemente in mano per affrontare ricoveri lontano da casa anche più e più volte l’anno.

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I viaggi della speranza spostano 1.500.000 di persone all’anno

«Per noi oncologi – spiega Fabiana Letizia Cecere, dell’Istituto nazionale tumori Regina Elena di Roma – prendersi cura del paziente non significa solo prescrivere una terapia ma prendersi cura a 360 gradi della persona. Quando una diagnosi rileva la presenza di tumori ha delle ripercussioni sull’intera famiglia, dalla prevenzione, quando c’è la diagnosi di ereditarietà, al fine vita. La ripercussione sul minore di una diagnosi sul genitore o la malattia del figlio sono argomenti di cui ci occupiamo. Dal nostro punto di vista abbiamo riscontrato una disomogeneità sul territorio nazionale nella gestione del paziente oncologico e abbiamo riunito le associazioni dei pazienti, chi fa volontariato, le istituzioni, per mappare e migliorare la gestione del paziente e della sua famiglia».

L’esperto: «Familiari da coinvolgere nella terapia contro i tumori»

«Il cancro – ha  ricordato il prof. Francesco Cognetti, tra gli oncologi più apprezzati d’Italia – non è semplicemente una patologia che colpisce alcuni organi ma è una malattia che ha un impatto ben più ampio sulla persona, sulla vita, sulla psiche e sulle relazioni affettive. È una malattia che va gestita a tutto tondo. Le pazienti sopravvivono ai tumori molto più a lungo rispetto al passato, mesi e anche anni. La donna – ha concluso – si trova in mezzo perché è paziente o parente di un paziente ed è al centro delle dinamiche che ruotano attorno alla malattia».

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