Giu 07 2019

Francesco Storace @ 10:10

Mancata fusione Fca-Renault. Per il governo parlare di sviluppo è una noia

La tramontata ipotesi di fusione tra FCA e Renault può aiutarci a riflettere su temi che, al di là degli episodi di cronaca, resteranno per molto tempo di grande attualità. Non parlerò di piattaforme, di nuovi modelli, di ibrido o di guida autonoma, su questi argomenti si è scritto tanto in questi giorni; quanto accaduto, a mio modo di vedere, dà lo spunto per riflessioni più ampie che investono il senso del rapporto tra il capitale ed il lavoro oltre che le ragioni della presenza pubblica in economia.

Premetto che sarà un’analisi concreta, basta sul confronto di grandezze omogenee e non incentrata esclusivamente sul settore auto. Partiamo da FCA che per noi italiani rappresenta la grande impresa per definizione ma che a livello globale è un’azienda di medie dimensioni. Il fair value, ovvero la capitalizzazione del gruppo italo americano oscilla tra i 16 ed i 18 miliardi, un valore altissimo se pensiamo con il metro di misura delle persone normali, un valore relativo se lo confrontiamo con il “fair value” di Amazon, 855 miliardi di dollari, Google 740 miliardi, Apple 839 miliardi e Microsoft 924 miliardi.

In altri termini per avere un valore assimilabile ad Amazon servirebbero 40 agglomerati industriali come FCA; forse l’intero settore auto a livello mondiale non capitalizza quando un gestore di e-commerce. Passiamo al gruppo Renault, il cui valore ingloba una partecipazione del 45% di Nissan, capitalizza più o meno come FCA, 17 miliardi per la precisione. Dalla loro fusione sarebbe dovuto sarebbe dovuto nascere un gruppo da circa 30 miliardi di valore con un fatturato che sarebbe andato oltre i 200 miliardi di euro. Un agglomerato industriale che avrebbe avuto una capitalizzazione pari a 5% di Apple o di Microsoft.

C’è poi un altro elemento credo debba essere evidenziato per cercare di capire come sta evolvendo il rapporto tra capitale e lavoro ed è il confronto tra FCA e Ferrari. La Ferrari, che fino a qualche hanno fa era parte integrante del gruppo FCA, fu scorporata, ovvero quotata direttamente in borsa, da  Sergio Marchionne. Ferrari è uno dei brand più conosciuti del mondo ma ha un fatturato modesto, con i sui 3,4 miliardi è un’azienda di dimensioni ridotte che capitalizza in borsa 31 miliardi, vale in altri termini, più del gruppo che si sarebbe creato fondendo FCA e Renault.

Veniamo al dunque, se il parametro di valutazione di un’impresa fosse esclusivamente quello della capitalizzazione non avrebbe alcun senso immaginare la presenza dello Stato in aziende come Renault o FCA, sarebbe un’intrusione in un settore che opera in un regime di libero mercato e che non fa utili significati. Ma il caso Renault ci pone un interrogativo, perché lo Stato francese è socio di un’azienda automobilistica, perché a Parigi considerano l’impegno dei soldi dei contribuenti in un’impresa che fa pochi profitti un obiettivo di carattere generale?

La risposta sta in un altro aspetto che contraddistingue il settore automotive, un aspetto che in un’ottica pubblica è tutt’altro che secondario. Il settore in questione impiega un numero considerevole di lavoratori. Sono circa 200.000 per il gruppo Renault e 200.000 per il gruppo FCA, senza considerare l’indotto e la commercializzazione. In Google, una società che vale 40 volte FCA ne lavorano appena 80.000, in Ferrari che come abbiamo visto ha una capitalizzazione simile a quella che avrebbero avuto di due gruppi insieme ci sono circa 3.000 dipendenti.

Il settore dell’auto di massa è quindi un settore ad alta densità di lavoro, un settore dal quale dipende la vita di centinaia di miglia di lavoratori e di milioni di famiglie. La localizzazione dei siti produttivi rappresenta un interesse pubblico prioritario come ha giustamente evidenziato il governo francese. E’ la “old economy”, quella fatta di ingegneri ed operai, di uffici di progettazione e di tute blu, una “old economy” molto poco patinata ma che ha un ruolo determinante nel creare occupazione, ricchezza, sviluppo sociale. In questa “old economy”, con buona pace di tanti liberisti da avanspettacolo, lo Stato ha il dovere di esserci perché l’interesse occupazionale è un interesse pubblico e perché il valore di quell’interesse supera di gran lunga il “fair value”, una variabile che interessa esclusivamente gli investitori.

Se avessimo un Ministro dello Sviluppo Economico che comprendesse il senso della parola sviluppo assisteremmo a qualcosa di simile a quello che è accaduto in Francia, avremmo uno Stato che nel nome dell’interesse collettivo assumerebbe un ruolo attivo per tutelare Melfi, Cassino, Mirafiori, Pomigliano d’Arco. Ma a noi italiani queste ambizioni sono precluse, dalle nostre parti la “old economy” non va di moda, dalle nostre parti si parla solo di new economy e la si declina nel numero di like che si ottengono con un post. Da noi gli strumenti che creano ricchezza sono un dettaglio, per eliminare la povertà basta fare un decreto ed annunciarlo affacciandosi dal balcone di Palazzo Chigi. Che senso ha parlare di industria, di occupazione e di numeri? Sono argomenti noiosi e privi di interesse che non portano follower, argomenti per gente “old” che non comprende il “cambiamento”.