Francesco Cecchin, quella vita spezzata dall’odio rosso. Il servizio del Tg2 (video)

17 Giu 2019 9:50 - di Redazione

40 anni fa la morte a Roma di Francesco Cecchin, 17 anni, militante del fronte della gioventù

40 anni fa moriva a #Roma #FrancescoCecchin, 17 anni, militante del fronte della gioventù. I suoi assassini non sono mai stati identificati.

Pubblicato da Tg2 su Domenica 16 giugno 2019

Il 16 giugno di 40 anni fa, mentre l’Italia si apprestava ad andare in villeggiatura e le giornate, già lunghe, odoravano d’estate, di mare, di sogni e di spensieratezza, un ragazzino di appena 18 anni, Francesco Cecchin, esalava l’ultimo respiro, la testa abbandonata su un cuscino, in un letto d’ospedale chiudendo gli occhi per sempre dopo diciannove giorni di agonia.

Lo avevano portato lì sperando di riuscire a salvarlo, dopo averlo trovato esanime e sanguinante in un cortile condominiale del quartiere Trieste di Roma, in via Montebuono, dov’era stato scaraventato, con un volo di 3 metri, dai suoi stessi assassini che lo avevano selvaggiamente picchiato. Come funzionava, normalmente, durante gli anni di piombo quando la regola, urlata a gran voce nei cortei ma anche serenamente esplicitata nelle assemblee, nei comizi, nelle adunate della sinistra, non sempre extraparlamentare, nei salotti medioborghesi dove si leggeva e si apprezzava la prosa di Moravia, era una sola: “uccidere un fascista non è reato”.

Francesco Cecchin non era un fascista. Era solo un ragazzino di 18 anni innamorato della vita e del suo impegno politico e sociale.

Bisogna partire dalla fine, dalle umilianti (per la Giustizia con la G maiuscola) parole contenute nella sentenza del 23 gennaio 1981 che, “in nome del popolo italiano”, assolse l’unico imputato, il militante comunista Stefano Marozza, – che, per sua stessa ammissione, aveva preso parte alla lite scoppiata in piazza Vescovio nel corso della quale Francesco Cecchin era stato pesantemente minacciato e, inoltre, risultava proprietario di una Fiat 850 bianca come quella dalla quale scesero gli aggressorie . e mise una pietra tombale sulla vicenda, per capire perché, a 40 anni di distanza da quell’omicidio disumano compiuto in maniera scientifica da un branco politicizzato dell’ultrasinistra, quel ragazzino dal viso pulito e dagli occhi profondi non ha avuto giustizia e i suoi assassini sono, serenamente, in libertà vivendo la vita che a Francesco non hanno permesso di vivere: «Appare incomprensibile la mancanza di ogni attività investigativa nell’ambito degli appartenenti alla fazione politica opposta a quella della vittima… La mancanza di prove in ordine al crimine commesso è con tutta probabilità da connettere a una estrema lacunosità delle indagini sotto i profili qualitativo, quantitativo e temporale».  In pratica, detto fuori dai denti, investigatori, magistrati, periti, se ne fotterono altamente di quel ragazzino che stava morendo in un letto d’ospedale dopo essere stato massacrato di botte.

Sotto accusa non solo le indagini della polizia ma anche la magistratura e gli stessi periti: «Veramente grave e singolare appare … che i periti non abbiano approfondito l’indagine, non si siano recati sul terrazzo dell’abitazione degli Ottaviani, ma semplicemente si siano limitati a dare un’occhiata dall’alto del ballatoio; e abbiano dato una “scorsa” altrettanto superficiale ai rilievi effettuati dalla polizia scientifica, come dichiarato dal professor Umani Ronchi all’udienza del 20 dicembre 1980. Altrettanto singolare che non abbiano tenuto in alcun conto i referti dell’ospedale San Giovanni».

L’ignobile strategia degli assassini di Francesco Cecchin e di chi li proteggeva in nome dell’antifascismo militante e di una comunanza ideologica che metteva insieme un’accozzaglia fatta dall’ultrasinistra più arrogante e dagli spicciafaccende culturali che amavano definirsi intellettuali di sinistra e giornalisti e che fiancheggiavano, con le loro raffinate e fumose analisi, le azioni più orribili di quegli autentici macellai, prevedeva che si arrivasse a a sostenere che, comunque, non c’era stata la reale volontà di uccidere quel ragazzino.
«È convinzione della Corte che, nel caso di specie, non si sia trattato di omicidio preterintenzionale, ma di vero e proprio omicidio volontario», scrissero i giudici della Corte d’Assise.

L’omertà di un mondo che si pavoneggiava nel suo molto presunto progressismo fece un capolavoro, da quel punto di vista. E, d’altra parte, quel mondo aveva un’esperienza solida in questo senso: era riuscito a far tirare fuori dal carcere uno degli assassini di Stefano e Virgilio Mattei, bruciati vivi nella loro casa di Primavalle 6 anni prima. È quell’assassino lo aveva poi celebrato, con una specie di processione pagana, portandolo, come si fa con i parenti ricchi e celebri, in visita dal “sacerdote” Moravia nel suo villone di Fregene dove l’intellighenzia era riunita a festeggiare.

La stessa cosa riuscirono a fare per gli assassini di Francesco Cecchin. A nulla valsero gli appelli di chi chiedeva, semplicemente, Giustizia nè il dossier che venne faticosamente costruito attraverso una controinchiesta del Fronte della Gioventù che qui il Secolo oggi ripubblica. E che rappresenta  un documento a suo modo storico, il tentativo di ricostruire la verità che le istituzioni si rifiutavano di accertare.

Ora il nuovo appello che abbiamo pubblicato ieri perché quella verità, a distanza di 40 anni dai fatti, venga finalmente fuori, lanciato, con una lettera, da Fabio Rampelli, Gianni Alemanno, Roberta Angelilli, Flavio Amadio e Giampiero e Giancarlo Monti: «Troppe inerzie da parte degli organi inquirenti» , e «coperture politiche» sul caso di Francesco Cecchin, il giovane militante romano del Fronte della Gioventù assassinato nel 1979 da persone rimaste ignote.

La richiesta è che vengano riaperte le indagini «non solo per la sua famiglia e la sua parte politica, non solo per i suoi 17 anni, ma perché crediamo che la mancata condanna dei colpevoli rimandi a inquietanti pagine non scritte della storia politica del nostro Paese».

Quella notte tra il 28 e il 29 maggio 1979, dopo essere stato inseguito da due persone arrivate in zona a bordo di una Fiat 850, fu trovato gravemente ferito in un cortile condominiale del quartiere Trieste di Roma; morì il 16 giugno 1979 dopo diciannove giorni di coma. Per molto tempo – da più parti – si tentò di accreditare la tesi della caduta accidentale dal parapetto del cortile e solo più tardi fu appurato che si trattò invece di omicidio volontario.

«Sono passati ormai 40 anni dall’omicidio di Francesco Cecchin, eppure – scrivono con grande amarezza Rampelli, Alemanno e gli altri firmatari – questo fatto di sangue rimane nella storia politica di Roma come una ferita ancora aperta. Certamente non l’unica, perché sono molti gli omicidi di militanti politici di destra e di sinistra che sono rimasti impuniti. Quando viene sparso sangue innocente, quando la politica degenera in faida, quando sono i militanti più generosi a pagare il prezzo di trame più grandi di loro, non ci si può mai rassegnare al tempo che passa e al sangue versato che non ha ottenuto giustizia».

«Più volte abbiamo chiesto – ricordano Rampelli, Alemanno e gli altri firmatari della lettera-appello che la magistratura mantenesse aperti tutti i fascicoli d’indagine su questi omicidi politici, senza archiviarli e senza rinunciare a sollecitare tutti i reduci di quegli anni a raccontare la loro verità».

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