Feb 14 2019

Mario Landolfi @ 13:02

Dibattito / Occhio ai masanielli che vogliono capeggiare la protesta del Sud

E venne il giorno dell’autonomia regionale. Rafforzata, s’intende, perché quella di serie c’è già per effetto della sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione voluta in articulo mortis della XIII legislatura, nel 2001, da una sinistra allora come ora in deficit di consensi. L’obiettivo, poi miseramente fallito, era fare concorrenza alla Lega sul terreno del federalismo e impedirle di tornare nel centrodestra, cosa che invece puntualmente avvenne. Si deve a quella sciagurata e miserabile riforma costituzionale se oggi l’Italia s’aggira in Europa agghindata delle pezze di Arlecchino, non più «schiava di Roma» ma malinconico ostaggio dei cacicchi dei territori. E sempre a quell’inguardabile pasticcio normativo si deve l’impennata del contenzioso tra governo centrale e regioni davanti alla Consulta, con tanti saluti alla certezza del diritto, allo snellimento della burocrazia e all’agevolazione degli investimenti pubblici e privati. Sembrerà strano, ma toccò proprio al centrodestra alleato della Lega tentare di metterci una pezza introducendo una clausola di salvaguardia pronta a scattare ogni qual volta l’autonomia regionale minacciava l’interesse dello Stato. Fu Alleanza Nazionale a volerla e se non la troviamo in Costituzione è solo perché la devolution (così fu ribattezzata quella riforma) non superò il test del referendum confermativo. Sfumata l’occasione ed evaporata anche la destra italiana per effetto della confluenza di An nel PdL, la deriva autonomista non ha incontrato più argini. Fino ad arrivare all’oggi con la richiesta di nuovi poteri e di ulteriori risorse da parte dei governatori di Lombardia e Veneto in compagnia di quello dell’Emilia Romagna. I primi due della Lega, il terzo del Pd. Guarda caso gli stessi protagonisti intorno ai quali ruota da vent’anni la girandola dell’autonomia, rafforzata in questo caso. È il punto politico della questione. E va tenuto ben presente per impedire che a strumentalizzarlo,  come sta già avvenendo, siano i cacicchi del Sud, i De Magistris, i De Luca gli Emiliano, gente – cioè – che ha in tasca la stessa tessera degli sfascisti del Titolo V e di Gentiloni, il premier che ha regalato a tempo scaduto l’autonomia rafforzata alle tre regioni, il cui testo è approdato oggi nel Consiglio dei ministri. La difesa dell’unità nazionale, ché di questo si trattta, non può essere lasciata in queste mani o in quelle – è il caso del sindaco di Napoli – di masanielli che sull’autonomia hanno costruito le proprie fortune politiche. La deriva secessionista non si argina elargendo modiche quantità di federalismo. La politica non conosce vaccini ma solo droghe, e la Catalogna è terribilmente vicina. Contrastarla è una battaglia nazionale che Giorgia Meloni farebbe bene ad intestarsi, non foss’altro perché è stata l’unica ad opporsi, con coraggio e a costo di non poche incomprensioni interne, al referendum pro-autonomia di Lombardia e Veneto. E non si lasci irretire dalla retorica sul Nord: quella brava e operosa gente è insofferente verso Roma perché la considera la capitale delle tasse e della burocrazia: tagliate i balzelli e diminuite bolli e timbri e vedrete che se ne fotteranno del federalismo e dell’autonomia. Certo, la battaglia è difficile è tutta in salita, ma va combattuta. Ne vale la pena.