Storia del nazionalismo ucraino: alle radici dell’odio contro i Russi

15 Giu 2016 17:07 - di Vincenzo Fratta

Prima dello scoppio della crisi con la Russia in Italia pochi conoscevano la storia dell’Ucraina, divenuta indipendente nel 1991, considerata genericamente dai non addetti ai lavori alla stregua di tutte le altre Repubbliche ex Sovietiche. Negli ultimi anni se ne è parlato molto, senza tuttavia comprendere appieno come l’ostilità che il Paese nutre verso la Russia abbia radici antiche e profonde, che non scaturiscono da una qualsivoglia «rivoluzione arancione», magari eterodiretta dall’Occidente capitalista.

Un importante contributo alla storia del nazionalismo ucraino ci viene ora dalla pubblicazione del volume di Michele Rallo, L’Ukraina e il suo fascismo. L’Organizzazione dei Nazionalisti Ukraini dalle origini alla guerra fredda (Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2016, pp.150, €20). Studioso dell’epoca delle rivoluzione nazionali con particolare riguardo alle nazioni dell’Europa dell’Est, l’autore ricostruisce la genesi e l’evoluzione dei movimenti indipendentisti ucraini dalla dissoluzione dell’Impero zarista fino alla parabola dell’Oun (organizzazione dei nazionalisti ucraini) di Stepan Bandera, i cui seguaci continuarono la lotta contro i sovietici ben oltre la fine della Seconda guerra mondiale.

Terra di confine tra l’Europa e l’Asia, l’Ucraina è alla ricerca dell’indipendenza da Mosca fin dal XIX Secolo, quando le opere dei poeti e scrittori Taras Shevchenko (1814-1861) e Ivan Franko (1856-1916) posero le basi del nazionalismo ucraino. Con la disgregazione dell’Impero degli Zar seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, nacque nel 1918 la prima Repubblica Nazionale Ukraina con a capo l’atamano Symon Petljura, che comprendeva anche la parte occidentale del Paese, la Galizia con capitale Leopoli, appartenuta fino alla fine del primo conflitto mondiale all’Impero Asburgico. I bolscevichi risposero subito con la creazione ad est di una Repubblica Sovietica Ukraina. Il paese divenne oggetto di una sanguinosa guerra civile: da nord calarono nel Paese le truppe della neocostituita Armata Rossa comandate da Trotsky; da sud-est salì l’Armata Bianca del generale zarista Denikin, rimpiazzato poi dal generale Wrangel. Nella parte meridionale del paese impazzarono le armate anarchiche di Machno. Fu un tutti contro tutti, costellato da momentanee alleanze tattiche. Uno scontro crudele per il quale le popolazioni civili pagarono un duro prezzo di sangue, compresa la numerosa comunità ebraica, oggetto di pogrom messi in atto da tutte le parti in causa. Battendo separatamente i diversi contendenti, fra i quali nel 1921 anche la Polonia chiamata in causa da Petljura, i bolscevichi ebbero la meglio e il Paese cadde sotto il giogo sovietico. Ne seguì la prima dura repressione contro i patrioti ucraini.

Il vero dramma per il popolo ucraino arrivò tra l’autunno del 1932 e la primavera del 1933 quando per ordine di Stalin fu scatenata la collettivizzazione forzata delle terre e lo sterminio dei kulaki. Fu attuata una requisizione sistematica di ogni genere alimentare, una carestia indotta artificialmente che provocò, secondo le stime più prudenti, non meno di quattro milioni di morti nella sola Ucraina (e due nel resto dell’Unione Sovietica). L’Holodomor, la «morte per fame», come la chiamano gli ucraini, fu accompagnata dall’eliminazione quasi totale dell’intelligenza dell’epoca. Un vero olocausto passato allora quasi sotto silenzio e ancora oggi scarsamente conosciuto e ricordato. Pochi anni dopo fu la volta delle famigerate «purghe» staliniane che unitamente alle altre regioni dell’Unione Sovietica, tornarono a colpire pesantemente la martoriata nazione.

Tra i patrioti ucraini in esilio si cominciava intanto a guardare all’Italia fascista come modello, e poi alla Germania nazionalsocialista come possibile alleato. L’idea era di partire dalla Galizia per riunificare l’intera Ucraina in uno stato indipendente. Dopo l’assassinio di Peltjura il 25 maggio del 1926 a Parigi, le redini dei diversi gruppi nazionalisti fu presa dal colonnello Yeven Konovalets, un ufficiale galiziano che aveva combattuto contro i bolscevichi nel corpo scelto dei Fucilieri della Sić. Nel 1926 Konovalets diede vita all’Organizzazione dei Nazionalisti Ukraini (Oun) che fino alla vigilia della guerra mondiale agì essenzialmente contro i polacchi in Galizia. Il 23 maggio 1938 anche Konovalets in esilio a Rotterdam fu ucciso da un sicario dell’Nkvd, i servizi segreti sovietici di allora. Il suo sostituito Andrii Melnyk, nel congresso celebrato a Roma nell’agosto del ’39, prevedeva che quando l’espansionismo tedesco fosse entrato in collisione con la Polonia e la Russia, l’Oun sarebbe potuto diventare il partito guida di una Ucraina riunita, alleata dell’Italia e della Germania. Più scettico riguardo alle intenzioni dei tedeschi si mostrava l’emergente capo dell’area «rivoluzionaria» dell’Oun, il trentenne Stepan Bandera, al momento detenuto in un carcere polacco per la sua attività politico-insurrezionale.

Una diffidenza che avrebbe trovato le sue conferme nell’agosto del 1939 con il Patto Ribbentrop-Molotov per la spartizione della Polonia che assegnava la Galizia ai sovietici, e soprattutto, nel giugno del 1941, dopo l’avvio vittorioso dell’operazione Barbarossa contro l’Urss, con il rifiuto dei tedeschi di riconoscere lo Stato Ukraino Indipendente proclamato dai miliziani di Bandera giunti tra i primi il 30 giugno a Kiev insieme alle avanguardie dell’esercito tedesco.

Da allora i membri dell’Oun, sia della componente Melnik sia della compagine di Bandera, furono oggetto della repressione tedesca fino al 1943 quando l’esito negativo della guerra indusse quest’ultimi a stringere un accordo con il loro braccio militare denominato Armata Insurrezionale Ucraina (Upa). Il 25 settembre 1944, quando l’intero Paese era ormai perduto e l’Armata Rossa già in territorio polacco, Bandera fu liberato dal campo di concentramento tedesco di Sandhausen nel quale era rinchiuso. Da Berlino prima e dall’esilio poi continuò a guidare la resistenza contro i sovietici, che nei boschi della Galizia e sulle montagne dei Carpazi si protrasse fino al 1954. Il prezzo che i patrioti ucraini e la popolazione civile pagò per la «normalizzazione» progressivamente attuata dai sovietici fu enorme in termini di morti, deportazioni e privazioni di ogni genere. Nell’ottobre 1959 il Capo del Oun, come Petljura e Konovalets prima di lui, fu ucciso da un sicario russo mentre si trovava in esilio a Monaco di Baviera.

Per i nazionalisti ucraini Stepan Bandera rimane tutt’oggi la principale figura di riferimento. I suoi ritratti sono esibiti in ogni corteo e molti manifestanti indossano magliette con ritratto il suo volto. Perfino i negozi di oggettistica di Leopoli e della Galizia, ma anche nella capitale Kiev, accanto agli oggetti dell’artigianato locale e ai souvenir con la bandiera nazionale azzurro e oro e il tridente di San Vladimiro, simbolo dell’Ukraina, espongono piccoli busti, ritratti e pubblicazioni apologetiche del capo dell’Oun. Al contrario, per la minoranza filo-russa della parte orientale del Paese, non c’è insulto peggiore di banderovtsy «seguace di Bandera» con il quale bollare gli odierni patrioti ucraini.

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