I fumetti che penetrarono nella cultura della destra, tra storia e sogno

16 Gen 2015 17:18 - di Marco Valle

Le nuvole parlanti parlano. Scaldano il tuo cuore, risvegliano la tua memoria. I fumetti, deliziosa “arte minore” e/o frammento di Storia. Anche della tua piccola storia. Le nuvole parlanti sono i pantaloncini corti e gli oratori, le elementari, le medie, e poi tanto altro. Tanti pezzi di vita. Anche della tua vita.

Andiamo per ordine. Le nuvole parlanti significano innanzitutto edicole, quei chioschi zeppi d’emozioni e colori che ti aspettavano all’uscita da scuola, meravigliosi scrigni su cui ti affacciavi cercando prima Topolino e poi — assieme alle figurine Panini — Zagor e TexBilly Bis e Capitan Mikil’Intrepido e il Monello. Alla fine dell’estate, quando andavi a trovare i nonni ad Anversa, lassù in Belgio, ti arrampicavi sul bancone per afferrare l’ultimo album di Lucky LukeAsterix e Blueberry. Per immaginare altri panorami, altre avventure. Aspettando l’avventura. L’occasione.

Negli Anni Settanta l’esplosione

Nei Settanta l’occasione sembrò arrivare. Purtroppo era un’occasione cattiva di un tempo crudele, ma non vi facemmo caso. I pantaloni si allungarono come le basette e i capelli. Gli orizzonti s’incupirono e i nemici divennero reali. Poco importava. Nelle piazze ritrovammo Asterix e la sua tribù d’irriducibili rompiscatole e fissammo nelle sedi — con sconforto dei notabili e gran dispiacere degli avversari — le palizzate del nostro fortino. Un fortino spesso assediato ma inespugnabile, attorniato da un fossato invalicabile, profondo come i canyon del west fantastico di Bonelli e Galeppini.

In quel casino il partito ci andava stretto. Molto stretto. La comunicazione, poi, era patetica, antica. Sbagliata. Il mondo stava cambiando vorticosamente ma i “vecchi” si accontentavano di parole d’ordine datate e strumenti passatisti. Le cose erano, ovviamente, più complesse ma intanto ci arrovellammo nel cercare nuove strade. Per esprimerci, per raccontare e inquietare. Per convincere e sorridere. Anche di noi stessi.

Da Almerigo Grilz a Hugo Pratt

Presto il fumetto divenne una possibilità, una via d’uscita: ecco allora le Storie della foresta nera di Almerigo Grilz a Trieste, le strisce di Tomaselli a Palermo e del Gamotta a Milano, le invenzioni grafiche di Parisella a Latina e, soprattutto, la Voce della Fogna di Tarchi e Marchal a Firenze. Poi la scoperta di Corto Maltese — ancora una volta l’avventura e il rifiuto del senso del collettivo — e i poster di Franzetta appesi in ogni camera…

Idee, colori, matite s’incrociarono sgomentando persino Umberto Eco che su l’Espresso si avventurò in una pizzosa requisitoria su “Fascio e fumetto” che toccò il diapason con la scomunica su Paese Sera del povero Diabolik. Stupidaggini. Al di là degli incubi del professore e dei suoi sodali, si trattò di un felice momento di creatività — ben compreso da un personaggio intelligente come Gianni Emilio Simonetti autore di Lambro Hobbit, la prima ricerca seria sulla cultura giovanile di destra — che rivitalizzò il nostro arcipelago. Per un attimo, tutto sembrò possibile.

Il libro di Alfatti Appetiti

Non fu così. Lo sappiamo. Eppure, varcata da un pezzo la conradiana linea d’ombra, quei sogni lontani non li abbiamo dimenticati. A volte tornano. Magari sfogliando un bel libro come I fumetti che hanno fatto l’Italia di Roberto Alfatti Appetiti. Con scrittura sicura e profonda conoscenza dell’argomento, lo scrittore romano ripercorre quei momenti incastonandoli con intelligenza e senza inutile enfasi in un’inattesa quanto interessante storia culturale del fumetto nel Bel Paese.

Coraggiosamente — l’impresa è ardua —, l’autore ha voluto esplorare un secolo di nuvole parlanti indagando allo stesso tempo i loro riflessi sui costumi, sui linguaggi. Punto di partenza, il mitico Corriere dei Piccoli e i disegnatori del ventennio mussoliniano: un’occasione ghiotta per un approfondimento sulle contaminazioni e gli intrecci — con la benedizione del Duce, per l’occasione poco autarchico — tra le matite tricolori  e i comicsd’oltreatlantico. Il posto d’onore (o la sciarpa littoria?) va a Walt Disney e al suo immortale Topolino, principe della produzione mondadoriana, ma non vanno dimenticati Gordonl’Uomo Mascherato, Mandrake e Jim della Giungla editati dal fascistissimo Nerbini.

Sotto l’ombra del littorio non mancarono nemmeno pensieri birichini. Proprio in quegli anni prese forma la via italiana all’erotismo: le donnine di Boccasile e Walter Molino saranno le madrine del filone sexy dei Sessanta-Settanta, una piccola e lucrosa industria editoriale che farà sognare (e non solo…) almeno due generazioni di studenti e marmittoni per poi trasformarsi — ormai incalzata dalla globalizzazione del sesso e dalle nuove tecnologie — in una nicchia per raffinati cultori delle giarrettiere.

Un altro posto d’onore Alfatti Appetiti lo dedica a Tex. Una scelta assolutamente centrata poiché il personaggio bonelliano è l’autentico «ministro degli esteri delle nostre nuvole parlanti in tutto il mondo». Aquila della notte e i suoi pards sono una formula magica che non invecchia, non appassisce. Dal 1948 ad oggi, milioni di lettori si sono appassionati (e si appassionano) alle scorribande del ranger creato da Gianluigi Bonelli e Aurelio Galeppini, infischiandosene bellamente delle dotte letture di intellettuali pretenziosi e delle rivendicazioni degli attivisti d’ogni colore e sfumatura. Nulla di strano. Tex è un irregolare del pensiero e dell’azione. Come i “fiumani” di D’Annunzio — l’unico riferimento storico possibile — il capo dei Navajos si proietta oltre le categorie della politica per interpretare sentimenti e valori non negoziabili: l’onore, l’amicizia, l’onestà, la libertà. Il resto è noia.

Su queste coordinate — Alfatti Appetiti è un bonelliano doc e lo rivendica con giusta passione; leggete l’ultimo capitolo, il più intenso e “privato” —, il lavoro spazia da Ken Parker al Commissario Spada, dal Maus di Spielgman a Martin Mystère. Poi, passando per il Belgio dei Schtroumpfs (importati in Italia da un grande giornalista come Mario Oriani, nei Sessanta direttore del Corriere dei Piccoli ed ex marò della Decima Mas; fu lui a ribattezzare gli ometti blù con il nome di Puffi) e Tintin del maurassiano Hergé, l’autore ci porta nel terzo millennio, descrivendo le gesta di The Fixer. Il risultato è un lungo viaggio che riserva ad ogni personaggio, ad ogni storia, ad ogni creatore un approfondimento e una chiave di lettura mai banale e mai superficiale; il tutto impreziosito da note intriganti, suggestioni curiose, intrecci intriganti.

In conclusione, solo due piccoli suggerimenti. Mancano — e si nota — Hugo Pratt e Dino Battaglia, due maestri dell’avventura. Peccato. Vi è poi una sottovalutazione del c.d fumetto seriale (confesso, ho iniziato questa stramba professione nel 1980 nella redazione de Il Monello e quindi l’argomento mi tocca…). Penso alle tavole, alcune decisamente notevoli, editate negli anni Settanta/Ottanta sulle riviste della Casa Editrice Universo — al tempo dirette da Mario Benvenga, un genio dell’editoria che una volta in pensione fu consigliere regionale del Msi nelle Marche — o su Lancio Story e alle benefiche contaminazioni con la scuola latino americana. A fronte di un libro importante, valeva forse la pena di soffermarsi su questi temi e dedicarvi qualche pagina. Confidiamo nella seconda edizione.

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