Il Formez è fondamentale per il Sud. Ma il suo futuro è avvolto nel mistero

29 Gen 2019 15:51 - di Silvano Moffa

Il futuro di Formez PA, istituto di formazione da tempo commissariato, del cui Cda ho avuto modo di far parte anni fa, è avvolto in una nube di mistero. Dire che oggi Formez PA rappresenti una anomalia nel sistema delle agenzie a controllo pubblico può apparire perfino banale. Ma tant’è. Nel corso degli ultimi anni l’Istituto ha rappresentato un po’ lo specchio del sistema pubblico italiano, con i suoi pregi (pochi) e i suoi difetti (molti). Basti pensare al peso che gli apparati amministrativi e una burocrazia fin troppo autoreferenziale hanno esercitato sulla attività amministrativa in genere, spesso imbrigliata in un ginepraio normativo e irrigidita da una stratificazione di poteri, che ne hanno  mortificato e, sovente, annullato l’efficacia e l’azione. È sotto gli occhi di tutti la scarsa capacità di spesa sia delle amministrazioni centrali che periferiche in relazione all’uso dei fondi strutturali e delle varie misure di finanziamento europeo, tanto per citare una palese carenza di coordinamento e di organizzazione che pesa come un macigno sullo sviluppo infrastrutturale dell’Italia.
Nonostante tali carenze, il Formez, per diverso tempo, ha rappresentato un punto di riferimento importante nella elaborazione di una cultura amministrativa di livello, in grado di intercettare e sistematizzare le migliori prassi, anticipando tematiche e letture di approfondimento intorno ad argomenti chiave, al solo scopo di  migliorare performance territoriali, in un quadro di competizione sempre più spinta sul piano globale e sempre più selettiva su quello locale. La rivista “Europa e Mezzogiorno “, edita nei primi anni Ottanta, fu antesignana nell’individuare nei progetti europei, con particolare riguardo alle aree più svantaggiate del Meridione, la strada maestra per incanalare risorse e promuovere progetti di intervento in grado di superare storici squilibri Nord/Sud.
Purtroppo non tutto ha funzionato. Molti suggerimenti sono caduti nel vuoto. Una classe dirigente opaca e scarsamente attenta alle dinamiche di spesa, quando non corrosa da sistemi corruttivi, ha finito con il metterci  il carico da undici. Sicche’, nonostante poche encomiabili eccezioni a macchia di leopardo nel tessuto slabbrato del Mezzogiorno, il divario, invece di annullarsi, si è accentuato.
Eppure, proprio il Formez, con i suoi studi, le sue ricerche e le sue pubblicazioni, fu il crogiolo in cui maturarono le idee che diedero la stura ad alcune riforme amministrative, a partire dalla “mitica” ricerca Giannini sulla pubblica amministrazione, da cui derivarono  indirizzi e modelli operativi di grande presa nel settore pubblico.
Ancora. Migliaia di funzionari pubblici si sono fatti le ossa sui programmi Ripam, adottati dal Formez nelle aule della ex Olivetti di Pozzuoli. Mentre, con ambiziosi progetti di cooperazione internazionale, si ampliava la collaborazione con molteplici Paesi: dalla Cina al Medio Oriente, dall’America del Sud all’area dei Balcani.
Ora che , a sentire il ministro della Funzione Pubblica, Giulia Bongiorno, si sta aprendo una nuova stagione di assunzioni nel settore pubblico (si parla di oltre 450 mila unità da assumere nei prossimi anni per effetto del turnover), perché’ non adottare lo strumento Formez per una missione che richiede qualità di formazione e capacità di selezione di adeguato livello? Se, come appare evidente, la pubblica amministrazione va resa più moderna, in linea con le nuove tecnologie informatiche, diversamente organizzata e ringiovanita sensibilmente nei suoi addetti,  il Formez,  trasformato in una agile Agenzia a tutti gli effetti pubblica , finalmente sganciato dall’attuale modello ibrido, potrebbe assolvere a tale funzione intervenendo con rapidità e competenza, se sollecitato dai diversi attori pubblici.
In questo senso, non sarebbe sbagliato individuare nel Formez il soggetto idoneo a reclutare personale dipendente da inserire nella pubblica amministrazione. Trasformandolo in una vera e propria Agenzia nazionale, strutturata per dipartimenti, che supporti soprattutto quelle regioni e quegli enti che faticano enormemente nello star dietro i piani di sviluppo europeo, nel programmarne le azioni, rendendo poi conto nei termini stabiliti delle risorse assegnate. A tutt’oggi, l’Italia è  fanalino di coda nell’utilizzo delle risorse inserite nel piano Juncker che prevede interventi infrastrutturali e finanziamenti agevolati della  Bce a favore  dei Comuni e delle imprese.
Una task force di esperti per monitorare e rendere più efficienti le spese dei fondi europei potrebbe essere costituita proprio facendo leva su una  struttura che già  esiste, senza inventarsi costosi nuovi enti. Dei 17 milioni che l’istituto riceve  dallo Stato per le sole spese di funzionamento , una parte può essere certamente impiegata per fornire consulenze alle Regioni e ai Comuni, senza dover ricorrere ad esperti esterni alla pubblica amministrazione.. Basterebbe , ove necessario, muovere la leva del comando o del distacco di tecnici da altri enti pubblici, riducendo così i costi e elevando la qualità delle prestazioni.
È chiedere troppo?

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