Ora tutti scoprono la teoria del moltiplicatore, anche nei talk show

4 Dic 2018 12:19 - di Enea Franza

Riceviamo da Enea Franza e volentieri pubblichiamo:

Caro direttore,

La teoria del moltiplicatore, formulata da R. F. Kahn nel 1931 e poi sviluppata da J. M. Keynes, è tornata negli ultimi tempi molti di moda, tanto da essere più volte oggetto di discussione anche nei talk show televisivi.

Considerato il livello generale della comunicazione, tuttavia, ci sembra legittimo porsi la domanda di si tratta effettivamente di una rinnovata fiducia nelle ricette dell’economista inglese, ovvero, solo di un “passa parola”, privo di un reale costrutto.

Dell’impatto che tale “scoperta” ebbe in ambito scientifico non stiamo qui a discettare, basti ricordare come fa l’economista americano, Hyman Minsky, che “Nel tormentato periodo che va dal 1929 al 1936 gli economisti accademici… non avevano saputo offrire pressoché nessun suggerimento politicamente accettabile circa un piano d’azione governativo, in quanto essi erano fermamente convinti della capacità d’autoregolazione del meccanismo di mercato… l’economia prima o poi si sarebbe ripresa da sola, a patto che la situazione non venisse aggravata ulteriormente dall’adozione di un’errata politica economica, inclusa la manovra fiscale”.

Bene alla mancanza di suggerimenti, supplì proprio l’economista inglese J.M. Keynes che alla basa ha proprio l’effetto moltiplicativo. Bene, ciò premesso, l’idea chiave del moltiplicatore riposa sulla osservazione che, se in una fase di depressione lo Stato effettua spese o da via ad investimenti in opere pubbliche, si avrà un aumento dell’occupazione e del reddito superiore di un certo multiplo (appunto, il moltiplicatore) a quelli della spesa pubblica effettuata e dell’occupazione da essa creata inizialmente.

Questo perché il reddito percepito dall’occupazione primaria, creata dalla spesa pubblica, ed in parte speso in beni di consumo, creerà a sua volta un’occupazione “secondaria” nelle imprese produttrici di tali beni (e, dunque, altro reddito), ed essa, a sua volta, attraverso lo stesso meccanismo, creerà altra occupazione (e altro reddito) e così via.

Il moltiplicatore della spesa pubblica, noto anche come moltiplicatore keynesiano è, per definizione, il reciproco della propensione marginale al risparmio, ovvero della parte del reddito che viene speso: infatti, quanto più alta sarà tale propensione da parte dei successivi percettori di reddito (cioè, quanto più bassa sarà la spesa per il consumo) tanto minori saranno gli effetti dell’investimento iniziale sul reddito.

Il moltiplicatore studiato da Keynes prescinde da considerazioni sulle modalità di finanziamento della spesa pubblica.

Questa questione, tuttavia, non è secondaria, anche perché le modalità di pagamento del deficitnon sono indifferenti per il complesso dell’economia.

Se, ad esempio, per finanziare la spesa pubblica aggiuntiva si ricorre a nuove tasse questo ha effetti depressivi sul consumo; in particolare, si è dimostrato che, allorché si voglia mantenere in pareggio il bilancio dello Stato e si effettui una tassazione in somma fissa, il moltiplicatore della spesa pubblica assume valore unitario.

Si può, altresì, considerare l’interazione tra aumento di reddito ed aumento dei tassi d’interesse che si realizza attraverso il mercato monetario, cosa che accade se si provvede al finanziamento con un prestito pubblico. Studiando questo caso, un aumento della spesa pubblica, dato che induce un incremento dei tassi d’interesse, “spiazza” l’attività privata d’investimento e produce in tal modo un effetto negativo sul reddito.

Bene se questi sono in estrema sintesi gli strumenti che ci mette in mano la teoria economica, ben vediamo che anche se si volesse procedere ad un deficit spendingdi keneysiana memoria, dovremmo tenere conto oltre che dell’effetto della già citata propensione al consumo, anche della pressione fiscale e del fatto che le economie sono aperte al commercio internazionale e, dunque, considerare altresì la propensione alle importazioni.

Dunque, procediamo con qualche esempio e con dei numerelli e verifichiamol’effetto della spesa pubblica sul reddito.

Cominciamo a fare calcoli ipotizzando una economia chiusa, ovvero, senza esportazioni ne importazioni. Peraltro, perché il moltiplicatore sortisca degli effetti debbono sussistere una serie di ipotesi che darò per scontate: gli investimenti sono dati, ossia esogeni e collegati alle aspettative degli imprenditori; i prezzi ed i salari sono fissi; esistono risorse inutilizzate (cioè si è lontani dal PIL potenziale); e, da ultimo, che se si verificano variazioni della Domanda, le imprese rispondono con variazioni delle quantità offerte e dell’occupazione.

Ciò posto, se lo stato interviene con spesa propria nell’economia con investimenti supponiamo pari a 100 ed una propensione al consumo pari ad 80%, possiamo calcolare un impatto sul reddito pari a 500.

Se, invece, si provvede con l’imposizione di tasse, possiamo distinguere due ipotesi: ipotizzando una imposta proporzionale al reddito, pari al 42,5%, un aumento di 100 della spesa pubblica farà aumentare il reddito fino ad un livello pari a 185. Come si vede siamo ben lontani dal moltiplicatore 5 della prima situazione considerata, poiché il processo di moltiplicazione viene frenato dal prelievo fiscale. Se addirittura, pensiamo di finanziare l’impegno statale con una imposta fissa di 100, pari proprio all’iniezione di spesa nel sistema (ipotesi di bilancio in pareggio), si avrà una crescita del reddito pari a 100.

Ne segue una prima lezione: più alta è l’imposizione fiscale, più debole è l’effetto moltiplicativo.

Adesso, prendiamo l’ultimo esempio fatto, ed apriamo il mercato, ipotizzando una propensione all’importazione del 20%. Tale componente riduce ancora di più l’effetto della spesa pubblica e, un investimento di 100, con una propensione al consumo dell’80%, con imposta proporzionale ed una pressione fiscale del 42,5%, ha un effetto sul reddito pari a 135%.

Insomma, gli effetti si riducono ed il moltiplicatore porta ad risultati sempre più contenuti sul reddito. Di certo molto lontano dalle ambizioni iniziali e l’incremento sul reddito, addirittura, scompare se la spesa pubblica viene finanziata con il ricorso al mercato. E’ presumibile, e i dati empirici sembrano confermare tale ipotesi, che l’offerta di titoli di debito da parte del mercato privato risulti “spiazzata” da quella pubblica, con un conseguente innalzamento dei tassi d’interesse.

Maggiori tassi d’interesse impattano sui consumi e gli investimenti, riducendoli. I primi per via anche del più caro credito al consumo, e gli altri scoraggiati da un maggior costo del finanziamento e parallela maggiore redditività sugli impieghi finanziari.

In definitiva, parlare di moltiplicatore può essere un bell’esercizio intellettuale, ma sperare che nel nostro Paese, mondo aperto al commercio internazionale, con altra propensione al risparmio ed alta pressione fiscale, esso possa funzionare a dovere è un’illusione, che ha trovato già profonde delusioni in tentativi analoghi fatti nel recente passato.

Dunque, meglio procedere con calma su tale terreno, considerando che probabilmente porterebbe risultati maggiori sulla occupazione, l’intervento diretto in diminuzione della pressione fiscale per le politiche di assunzione di mano d’opera connessa alla costruzione di grandi opere.

Ma sappiano già che in tale ambito non troveremo moltissimi alleati.

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