I genitori di Pamela a Oseghale: «Non ti perdoniamo, devi marcire in carcere»

4 Dic 2018 13:07 - di Aldo Garcon

Alessandra Verni e Stefano Mastropietro, genitori di Pamela, la diciottenne romana uccisa e fatta a pezzi nel Maceratese, hanno rispedito al mittente le scuse di Innocent Oseghale. Il pusher nigeriano nei giorni scorsi ha scritto una lettera ai familiari della ragazza romana ribadendo di non aver ucciso Pamela: a suo dire la diciottenne sarebbe morta di overdose e lui l’avrebbe fatta a pezzi solo per paura di essere scoperto. I genitori della ragazza hanno replicato indignati al nigeriano. «Come possiamo accettare le scuse che ci hai rivolto in udienza, lo scorso 26 novembre – hanno scritto – quando un giudice, con coraggio, ti ha rinviato a giudizio per aver violentato, ucciso, depezzato chirurgicamente, scuoiato, scarnificato, disarticolato, esanguato, lavato con la varechina, messo in due trolley e abbandonato sul ciglio di una strada nostra figlia Pamela, che aveva appena 18 anni?». «Il fatto che tu abbia solo pensato di farlo, dimostra inequivocabilmente che per te, fare quello che hai fatto, è la normalità – hanno continuato i genitori di Pamela Mastropietro – Perché vedi, non è solo il fatto di averla violentata ed uccisa, ma anche quello che ha fatto dopo: un qualcosa che non ha precedenti e che dimostra, da una parte, una demoniaca freddezza, dall’altra una ferocia che non ha eguali. Il nostro avvocato ci ha dovuto far vedere nel tempo le fotografie  di come avevi ridotto Pamela: ci siamo sentiti male, abbiamo vomitato, abbiamo pianto disperatamente, non siamo andati a lavoro per settimane. Sai che ci è stato vietato di poter dare un ultimo abbraccio al suo corpo, il giorno che l’abbiamo dovuto chiudere nella bara, a Macerata? Lì per lì non capivamo. Poi, qualche tempo dopo, sempre il nostro avvocato ci ha detto  che era stato necessario, perché sennò il corpo che avevano faticosamente cercato di ricomporre si sarebbe  sfaldato alla minima pressione».

E poi ancora: «Come possiamo perdonarti? Una domanda simile, fatta a noi, vuole anche dire che tu ti sia già perdonato. O, peggio, che non ti sia mai pentito. Hai chiesto poi, come se non bastasse, una seconda possibilità: ma perché non racconti agli italiani, cui pure ti sei rivolto, chi sei? Perché non racconti che sei qui in Italia da anni, venuto come richiedente protezione internazionale, dicendo di essere un perseguitato al tuo Paese, salvo poi esserti dedicato, nella terra che ti aveva ospitato a prescindere (così dicono le leggi internazionali, salvo il vaglio dei requisiti che avviene solo in un secondo momento), a spacciare droga e ad essere anche condannato per questo? Chiedi scusa agli italiani, dunque, di cosa? Di aver venduto droga ai loro figli? E a noi? Di aver ridotto in quel modo nostra figlia che, a quanto risulta, voleva tornare a casa da noi? E te lo aveva pure detto, piangendo? No Oseghale, non ti perdoniamo. Non meriti nulla, se non una condanna esemplare, che ti releghi in carcere per il resto dei tuoi anni a venire».

 

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