Spagnola, un secolo dopo: cosa si sa dell’influenza da 50 milioni di morti

9 Ott 2018 11:33 - di Penelope Corrado

“Ne ha uccisi più la Spagnola che la guerra”, recita un vecchio proverbio del Nord Italia. Cento anni dopo, la pandemia influenzale che nel 1918 contagiò un terzo della popolazione mondiale e fece 50 milioni di vittime ha ancora qualcosa da insegnare. A fare il punto, in occasione del centenario, è un nuovo studio sui fattori umani, virali e sociali che portarono alla peggiore epidemia d’influenza mai registrata nella storia.

Lo studio sulla influenza Spagnola del 1918

Pubblicato su “Frontiers in Cellular and Infection Microbiology”, il lavoro mostra quali sono le “preziose lezioni” che potrebbero contribuire a salvare vite in caso di una futura pandemia. Consapevoli che nuove sfide ne influenzeranno l’impatto, avvertono gli autori, nonostante oggi il mondo sia più preparato: fra queste, i cambiamenti demografici e climatici e la resistenza agli antibiotici. “Abbiamo visto 3 ulteriori pandemie influenzali dal 1918: l’influenza ‘asiatica’ del 1957, la ‘Hong Kong’ del 1968 e la ‘suina’ del 2009. Anche se più miti della pandemia del 1918, evidenziano la costante minaccia che il virus dell’influenza pone per la salute umana”, spiega la docente dell’University of Melbourne, Katherine Kedzierska (Peter Doherty Institute for Infection and Immunity, Australia). “Com’è successo 100 anni fa – aggiunge Carolien van de Sandt, scienziata del Doherty Institute – la gravità di ogni futuro focolaio deriverà da una complessa interazione tra fattori. Comprenderli è vitale per la preparazione alla pandemia influenzale”. “Una lezione importante della pandemia influenzale del 1918 è che una risposta pubblica ben preparata può salvare molte vite”, puntualizza van de Sandt. Anche perché gli scienziati stimano che, se una simile pandemia si verificasse oggi, il numero delle vittime potrebbe arrivare fino a 147 milioni.

Un virus che subì parecchie mutazioni

Nel caso della Spagnola – analizzano gli esperti – sebbene i numeri di contagiati e morti furono enormi, molte persone riuscirono a sopravvivere a un’infezione grave e altre mostrarono sintomi lievi. “Ci siamo sempre chiesti perché alcuni pazienti sono in grado di controllare efficacemente le infezioni virali mentre altri soccombono”, dice Kedzierska. Per indagare su questo aspetto e sul perché l’epidemia del 1918 è stata così virulenta, Kedzierska e van de Sandt, insieme a Kirsty Short dell’University of Queensland, hanno esaminato un gran numero di studi. Una spiegazione della gravità della pandemia è nel ceppo virale stesso, osservano. Alcune ricerche mostrano infatti che l’agente patogeno del 1918 poteva diffondersi ad altri tessuti oltre il tratto respiratorio, con conseguente danno più diffuso. Inoltre, il virus subì mutazioni che gli permisero una trasmissione più facile nell’uomo. A differenza del 1918, quando la causa dell’influenza era sconosciuta, gli scienziati oggi possono valutare il potenziale pandemico di nuovi virus, sia negli animali che nell’uomo quando ha fatto il salto di specie. Ma, sottolineano gli autori dello studio, sono richiesti in tutto il mondo degli adeguati sforzi di sorveglianza. Fattore che diventerà ancora più importante di fronte ai costanti cambiamenti climatici, i quali “influenzano i ‘serbatoi’ animali di virus influenzali e gli schemi di migrazione degli uccelli – afferma van de Sandt – Questi aspetti potrebbero diffondere i virus in nuove località e in una più ampia gamma di specie di uccelli”.

I nuovi alleati di un nuovo virus? Obesità e vecchiaia

Altro fattore cruciale è la salute pubblica: nel 1918 le persone che soffrivano di malnutrizione e malattie sottostanti, come la Tbc, avevano maggiori probabilità di morire a causa dell’infezione. E anche oggi – fanno notare gli esperti – i cambiamenti climatici potrebbero causare perdite di raccolto e malnutrizione, mentre l’aumento della resistenza agli antibiotici potrebbe rendere le infezioni batteriche sempre più diffuse. Incombe poi la sfida dell’obesità, che aumenta il rischio di morire d’influenza. Anche i dati demografici giocano un ruolo. Stranamente, uno dei gruppi più gravemente colpiti nel 1918 era quello che di solito resiste: i giovani adulti. I ricercatori ritengono che gli anziani venissero risparmiati per via di una precedente esposizione ad altri virus che dava loro una maggiore immunità ai ceppi virali del 1918.

La prossima pandemia? Più letale della Spagnola

Tuttavia, dato che l’influenza stagionale in genere uccide le persone molto in là con l’età, l’attuale invecchiamento della popolazione sarà probabilmente un’altra sfida in qualsiasi pandemia futura. “In caso, nel fornire vaccini d’emergenza si dovrebbe tener conto delle diverse fasce d’età e dei fattori virali e dell”ospite'”, suggerisce Kedzierska. I ricercatori riportano anche che i metodi di base per ridurre la trasmissione, come il lavaggio delle mani e il divieto di raduni pubblici, contribuirono a ridurre i livelli di infezione e morte nel 1918, ma solo quando applicati in anticipo e per tutta la durata della pandemia.

Le previsioni sulla prossima pandemia

“Finché non sarà disponibile un vaccino ampiamente protettivo, i governi devono informare tutti su cosa aspettarsi e su come agire in contesti simili”, raccomanda van de Sandt. È impossibile sapere quando o come emergerà la prossima pandemia influenzale. Una cosa però è certa, concludono gli esperti: i focolai futuri non saranno esattamente come quello del 1918, ma la Spagnola ha ancora molto da insegnarci.

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