È la “Nuova Repubblica” l’eredità politica di Almirante e Romualdi

21 Mag 2018 12:23 - di Mario Landolfi

Solo pochi giorni fa, sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia retrodatava agli anni della sconfitta militare italiana e della guerra civile che ne era scaturita l’origine del “male oscuro” che tuttora avvolge e condiziona la nostra vicenda collettiva rendendola un unicum nel contesto europeo. Che si parli dell’uccisione di Aldo Moro o di Tangentopoli, della strage di Portella delle Ginestre piuttosto che della presunta trattativa Stato-mafia o della Loggia P2, tutto – è la tesi dell’editorialista – ci obbliga a risalire al significato profondo sotteso a quei drammatici frangenti storici con i quali, un po’ per convinzione e molto per convenienza, non abbiamo mai veramente saldato i conti.

Galli della Loggia: lo Stato va rifondato

Eppure, è esattamente dalla sconfitta militare dell’Italia (e non del solo fascismo, come da 70 anni la retorica resistenzialista si ostina a farci credere) che data la nostra fragilità statuale e la nostra minorità sullo scenario internazionale. «Mille segni di crisi (…) – conclude Galli della Loggia – indicano che ormai all’ordine del giorno va messa la rifondazione della Repubblica. Né più né meno». Era ora, verrebbe da dire. Già, perché a molti, a cominciare dall’editorialista del Corsera, apparirà certamente strano ma in queste poche righe sommariamente sintetizzate c’è l’essenza stessa della presenza e della missione politica della destra italiana, che proprio in questi giorni ricorda i suoi due esponenti più significativi nel trentennale della loro morte: Giorgio Almirante e Pino Romualdi. Se c’è un loro lascito politico, ancora attuale, è proprio la rifondazione delle istituzioni, la “Nuova Repubblica”, appunto. Un obiettivo che nell’accezione missina non si esauriva nella trasformazione in senso presidenzialistico della forma di Stato, ma si prefiggeva di aggredire e risolvere le cause prime del “male oscuro” italiano oggi denunciate da Galli della Loggia: la genesi partigiana della Repubblica, la sua involuzione ciellenista e partitocratica, la progressiva rarefazione del pensiero nazionale ad esclusivo vantaggio di culture estranee al processo risorgimentale, ma ben presenti ed attive in quello resistenzialista. A destra la chiamavamo “pacificazione nazionale” e stava ad indicare l’uscita dal tunnel del dopoguerra e l’avvio di un percorso collettivo finalizzato alla formazione di una memoria condivisa.

Almirante, Romualdi e la lezione dei “vinti”

Più di altri “repubblichini”, Almirante e Romualdi concepirono e vissero l’impegno nelle istituzioni democratiche come l’unico capace di restituire dignità alle ragioni dei “vinti” e cancellare l’infamia di Piazzale Loreto. In tal senso, la loro adesione alla democrazia fu convinta e sgombra di retropensieri e di secondi fini. Si batterono in nome della nazione, non della fazione, cioè in nome di una visione “alta e altra” rispetto alla partitocrazia allora imperante. Per questo, pur a distanza di tanti anni, il tema della rifondazione della Repubblica è ancora vitale. Per questo ne scrive ancora Galli della Loggia, la cui severa analisi giunge allo stesso approdo: ri-esplorare, senza esorcismi e senza demonizzazioni, tutti gli anfratti della nostra storia per venire a capo dell’irrisolto “caso italiano”. Un implicito “non restaurare, non rinnegare” che suona familiare ai nostri orecchi. È la prova che la destra era nel giusto. Ma è anche la conferma che se i suoi capi, Almirante e Romualdi, si sedettero dalle parti del “torto” è solo perché – per dirla con Brecht – «tutti gli altri posti erano occupati».

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