Trattativa Stato-mafia, i pm scaricano il teste chiave Ciancimino: calunniatore

26 Gen 2018 19:07 - di Redazione

E’ considerato il teste chiave su cui basa il castello accusatorio. Le sue dichiarazioni sorreggono tutto il processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Per l’ex-pm Antonio Ingroia e per Michele Santoro lui era e resta un’icona antimafia, anche se parecchio ammaccata. Eppure i magistrati della Procura di Palermo, arrivati quasi al termine del processone con il quale avrebbero dovuto scardinare le Istituzioni fin dalle fondamenta, si vedono ora costretti a buttare a mare, in sede di requisitoria e nel mentre presentano alla Corte le richieste di pena, proprio il testimone principale, quel Massimo Ciancimino, figlio di Vito, ex-sindaco di Palermo negli anni ’70 ed ex-collega di partito di Leoluca Orlando, con l’accusa esplicita che, sì, il personaggio in questione, quella molto presunta icona antimafia, altro non è che un calunniatore, così come hanno sempre sostenuto i colleghi della vicina Procura di Caltanissetta che considerano il personaggio inattendibile e sputtanato oltre ogni immaginazione.

Per cui ecco che nella girandola di fuochi d’artificio delle richieste di pena – 12 anni di carcere per il senatore Dell’Utri, 15 per l’ex-comandante dei Ros, Mario Mori, 12 anni per i due ex-ufficiali del Ros, il generale Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, 6 per l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino che, a differenza di tutti gli altri, non è accusato di minaccia a corpo politico dello Stato ma di falsa testimonianza, e via elencando giù giù fino ai mafiosi Leoluca Bagarella e Antonio Cinà – quella che senz’altro spicca dissonante e mette in imbarazzo la Procura di Palermo nella requisitoria per la trattativa Stato-mafia, è proprio la richiesta di quei 5 anni di carcere per il calunniatore Massimo Ciancimino. Che era accusato anche di concorso in associazione mafiosa ma le sue condotte, in questo senso, sarebbero cessate, secondo i pm, con la cattura del boss Totò Riina, a gennaio 1993. Di qui la richiesta alla Corte di assise presieduta da Alfredo Montalto, di dichiarare prescritto il reato.

Insomma il processone, il cui Padre Nobile è stato ringhiottito nell’anonimato dopo il il suo flop elettorale e che già era messo male in arnese per la mancanza di prove portate a supporto del teorema Ingroiano, già mollato da tempo al suo destino e alla triste deriva che ha inevitabilmente preso, perfino da Gian Carlo Caselli – «un’inchiesta obiettivamente molto difficile e tormentata, della quale è legittimo ragionare in termini anche piuttosto critici», scrisse l’ex-capo della Procura di Palermo già nel 2013 sul Fatto Quotidiano, il Corano dei manettari giustizialisti – ora sprofonda nel ridicolo e nell’improbabile.

Ciancimino, esibito e lucidato come un trofeo in questi anni da IngroiaSantoro e da altri campioni dell’antimafia militante, è accusato ora, dalla Procura di Palermo, di avere «consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno e al rafforzamento dell’associazione mafiosa, denominata Cosa nostra, svolgendo il ruolo di latore di messaggi scritti con comunicazioni orali fra il padre Vito e Bernardo Provenzano» ma anche di calunnia nei confronti dell’ex-capo della Polizia Gianni De Gennaro, incolpandolo, pur «sapendolo innocente – dice il capo di imputazione – di avere nella sua qualità di funzionario della polizia intrattenuto costanti rapporti illeciti con esponenti di Cosa Nostra».

Non è difficile capire che tutto questo mal si concilia con il suo ruolo di supertestimone del processo trattativa Stato-mafia. E con le richieste di condanna che ne sono conseguite dalle dichiarazioni del calunniatore, riconosciuto come tale dalla stessa Procura di Palermo, alcuni dei cui pm vorrebbero scegliere, fior da fiore, le dichiarazioni di Ciancimino che fanno più comodo alla tesi processuale, ovvero salvare il salvabile gettando inevitabilmente a mare – ma solo perché costretti dagli eventi – il Ciancimino calunniatore.

E allora è lecito chiedersi cosa, di questo processo sulla presunta e indimostrata trattativa Stato-mafia possa ancora salvarsi e cosa, invece, vada archiviato perlomeno come una boutade visto lo spessore criminale del suo testimone principale – un pregiudicato – che non solo ora rischia una molto probabile condanna per calunnia e ha schivato, solo per un pelo, l’accusa di concorso in associazione a delinquere di stampo mafioso ma è stato condannato in via definitiva per riciclaggio di denaro della mafia e per detenzione di esplosivi.

La domanda è semplice: si può credere a uno così? Si può credere a un calunniatore e, perdipiù, basare, sulle sue dichiarazioni, sulle dichiarazioni di un calunniatore e riciclatore di soldi della mafia, un intero processo come la presunta trattativa Stato-mafia? Si possono condannare persone a 12-15 anni di carcere sulla base delle dichiarazioni di un calunniatore?

Per dire, il famoso “papello” che sarebbe – e qui la forma condizionale ci sta tutta – alla base della trattativa. Ciancimino consegna alla Procura di Palermo una fotocopia del cosiddetto “papello“, cioè la presunte richieste avanzate da Riina allo Stato nella trattativa Stato-mafia in due versioni: una attribuita al padre Vito, l’altra non attribuibile a nessuno dei capimafia conosciuti.

Nessuno dei documenti presentati da Ciancimino risulta in originale e nel corso del processo per favoreggiamento intentato dalla Procura di Palermo contro il generale Mario Mori ed il colonnello Mauro Obinu – processo finito con l’assoluzione con formula piena dei due militari dell’Arma e con la trasmissione degli atti alla Procura per valutare la falsa testimonianza dello stesso Ciancimino – la credibilità del personaggio che i pm del processo per la trattativa Stato-mafia esibiscono come il teste principale viene fatta a pezzi. Per non dire poi dell’opinione che di Massimo Ciancimino hanno i magistrati della Procura di Caltanissetta.

Dunque, a valle di tutto questo, non si può non sorridere sentendo la requisitoria dei pm nel processo sulla trattativa Stato-mafia.

«E’ vero che il generale Mario Mori è stato assolto in via definitiva dall’accusa di favoreggiamento» per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995 , arrivano a dire i magistrati calpestando la sentenza di assoluzione definitiva e tentando di rimettere tutto in discussione – «però dobbiamo tenere presente che quella sentenza assolutoria venne pronunciata con una formula ben precisa: non perché i fatti contestati siano statai ritenuti non provati, ma perché il fatto non costituisce reato».

«Risulta provato che l’incontro tra esponenti mafiosi e Marcello Dell’Utri siano stati plurimi e ripetuti nel tempo, da collocare sia prima delle elezioni del ’94 che dopo le politiche – sostengono i pm nella requisitoria con la quale chiedono la condanna a 12 anni di Dell’Utri – Nel corso di questi incontri, sia Graviano che Mangano hanno sollecitato Dell’Utri a intervenire a favore di Cosa nostra. E Dell’Utri non si è sottratto e si è fatto interprete degli interessi di Cosa nostra».

E, immancabilmente, non può che toccare anche a Berlusconi, il bersaglio più ghiotto: «Risulta provato che nel 1994, con il decreto Biondi e la riforma della giustizia in Commissione, Marcello Dell’Utri ha ottemperato alle sollecitazioni di Vittorio Mangano incaricato da Giovanni Brusca, dando seguito all’accordo con Cosa nostra: benefici e garanzie in cambio dell’interruzione della strategia stragista. La carica ricattatoria di Dell’Utri è stata recepita dal capo del governo di allora, Silvio Berlusconi». Insomma la solita canzonetta che oramai suonano tutte le orchestrine giustizialiste mentre sprofondano nel ridicolo.

 

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