Omicidio Fragalà, così uno degli imputati cercò di costruire un falso alibi

17 Gen 2018 21:00 - di Paolo Lami

Colpo di scena al processo per l’omicidio di Enzo Fragalà, l’avvocato palermitano e parlamentare di An ferito a morte a bastonate dalla mafia il 23 febbraio 2010. Quasi al termine dell’udienza, durata 5 ore e incentrata sul controesame del maggiore dei carabinieri, Dario Ferrara, che ha seguito tutta l’indagine sull’omicidio, il pm Francesca Mazzocco ha annunciato che depositerà le dichiarazioni rese sei giorni fa, l’11 gennaio scorso, ai magistrati che lo sono andati a incontrare in carcere, da uno degli imputati, Antonino Siragusa. Che, fino ad oggi, ha tentato di rifilare bufale ai magistrati nel tentativo, finora fallito, di contrastare le dichiarazioni del pentito Francesco Chiarello.

L’udienza di ieri del processo per l’omicidio Fragalà ha visto il controesame del maggiore dell’Arma, Dario Ferrara. Che ha spiegato quali piste investigative sono state battute, prima di arrivare agli attuali imputati, perché quasi tutte, meno una, sono state escluse in seguito agli accertamenti svolti dagli investigatori dell’Arma, e come qualcuno degli attuali imputati ha cercato di costruirsi maldestramente un alibi, prima dell’omicidio di Enzo Fragalà, utilizzando le telecamere nascoste posizionate dalla squadra Catturandi della polizia di Palermo in prossimità di una fiaschetteria frequentata dai mafiosi di Borgo Vecchio.

«Tutte le piste sono state esaminate – spiega il maggiore Ferrara – Abbiamo accertato a quali processi stava lavorando e se seguiva clienti che stavano collaborando con la giustizia. Sono state seguite piste che riconducevano al mondo degli zingari e al terrorismo di destra, poi chiuse perché non hanno portato nessun riscontro. Anche la pista di clienti scontenti, ma le intercettazioni hanno dato esito negativo. E poi quella legata alla sua attività politica, ma anche in questo caso non è emerso nessun elemento utile».

Molto si è discusso nel corso dell’udienza di questioni tecniche come quelle relative alla portata delle base station telefoniche, le antenne radiocellulari a cui erano agganciati gli apparati degli imputati, alcuni dei quali sono stati spenti poco prima dell’agguato, mano a mano che i killer si avvicinavano al luogo dell’omicidio in via Nicolò Turrisi, di fronte al Tribunale di Palermo, e riaccesi dopo l’esecuzione mafiosa a colpi di bastone.
Le difese sostengono che non si possa discriminare se i cellulari degli imputati erano stati spenti o, semplicemente, non “prendevano”. Ma il maggiore Ferrara ha spiegato che, nel secondo caso, avrebbero, comunque, trasmesso ogni tanto qualche segnale alle celle, cosa che, invece, non è avvenuto. Segno che i cellulari vennero deliberatamente spenti per non essere tracciati e, poi, riaccesi dopo l’omicidio. Cosa che, peraltro, non ha impedito agli investigatori dell’Arma di ricostruire, passo passo, gli spostamenti degli imputati sia attraverso i colloqui al telefono fra di loro, sia attraverso l’analisi delle celle telefoniche.

A questo proposito, di fronte alle domande poste da alcuni avvocati difensori dei sei imputati, il maggiore Ferrara ha spiegato come gli investigatori si convinsero che uno degli imputati, Francesco Arcuri, si era costruito un alibi poco prima dell’omicidio. I carabinieri si recano in carcere  per notificargli l’atto. Ma lui, di fronte alle contestazioni, sostiene di essere stato, quel giorno, proprio all’ora dell’agguato, in una fiaschetteria di via Guerrazzi dove erano soliti ritrovarsi alcuni mafiosi, 14 minuti a piedi dal luogo dell’omicidio.
«Andate a controllare le telecamere, io ero lì sotto», dice Arcuri agli investigatori dell’Arma. Le telecamere a cui Arcuri allude sono quelle posizionate dalla squadra Catturandi di Palermo per controllare la fiaschetteria e il via vai di mafiosi.

«Rimasi subito colpito da questa frase, come faceva a ricordarsi con tanta sicurezza dove si trovava tre anni prima?» si è chiesto giustamente oggi in aula il maggiore Ferrara. Evidentemente Arcuri si era fatto riprendere appositamente dalle telecamere della polizia per crearsi l’alibi che gli sarebbe servito nel caso, come poi è effettivamente accaduto, gli investigatori, grazie anche al materiale raccolto dalla squadra Catturandi della polizia, ma non solo, fossero riusciti a ricostruire, pezzo per pezzo, l’intera azione contro Fragalà, i nomi di chi vi partecipò, sia direttamente – e le telecamere del negozio Mail Boxes di via Nicolò Turrisi cristallizzano le immagini dei mafiosi Antonino Siracusa e Salvatore Ingrassia che transitano lì, in via Nicolò Turrisi, prima e dopo l’agguato – sia chi, invece, organizzò la spedizione e cercò di restare nell’ombra.
«È così che abbiamo saputo dell’esistenza dell’impianto di videosorveglianza in quella zona e poi abbiamo acquisito i dati dalla Mobile», ricostruisce il maggiore Ferrara in aula. E ricorda che proprio incrociando quegli elementi acquisiti dalla squadra Mobile con gli sms ricevuti da Arcuri in quei momenti e gli acertamenti tecnici degli operatori cellulari la ricostruzione dell’intera organizzazione dell’agguato venne confermata mettendo ogni pedina al suo posto sulla mappa.

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