Fratelli d’Italia sulla strada dei ricordi: da Redipuglia a Basovizza

1 Dic 2017 20:00 - di Antonio Pannullo

“Abbiamo valori forti nel cuore, e radici da proteggere. Occhi puntati sul domani, con fiducia e determinazione. Siamo fratelli: crediamo nel talento, nella passione e nel lavoro; vogliamo vivere la libertà e progettare il futuro. Siamo fratelli: amiamo la nostra gente, parliamo la stessa lingua e respiriamo nel Paese più bello del mondo. Il 2 e 3 dicembre l’evento, a Trieste. Siamo fratelli. Siamo l’Italia”. Questo è il testo del video promo che presenta il II Congresso nazionale di Fratelli d’Italia, che si svolge in una città cara a tutti gli italiani ma in particolare a un certo tipo di italiani, un certo tipo di patrioti che nella città giuliana conservano una parte importante del loro immaginario politico. Proprio per quello che Trieste ha rappresentato e rappresenta Fratelli d’Italia ha organizzato un suggestivo tour per i delegati che si recheranno a Trieste, tour della memoria che si svolge il giorno prima dell’inaugurazione del Congresso, ossia venerdì 1° dicembre. Quattro le tappe principali di questo sentiero dei ricordi: la Foiba di Basovizza, il Magazzino 18, il museo di Padriciano e il Sacrario di Redipuglia. Oltre naturalmente all’intera città di Trieste, dove le strade videro migliaia di italiani combattere per Trieste italiana e dove giovani patrioti del Movimento Sociale Italiano persero la vita.

Foiba di Basovizza – In origine questa depressione carsica era un pozzo minerario: ma divenne a partire dal maggio del 1945, e forse anche prima, un luogo di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili italiani, che vennero barbaramente trucidati dai partigiani jugoslavi comunisti di Tito. I titini effettuavano dei rastrellamenti catturando tutti gli italiani – non i fascisti, gli italiani – che riuscivano a trovare, per poi destinarli dapprima ai campi d’internamento allestiti in Slovenia, allora regione della Jugoslavia, e successivamente assassinati a Basovizza senza neanche un simulacro di processo. Si trattò di vera e propria pulizia etnica, sulla quale è stato steso un velo di silenzio, complicità e omertà per oltre mezzo secolo, anche da parte dei pavidi governi italiani che si sono succeduti. Le vittime destinate a essere precipitate nella voragine di Basovizza, venivano prelevate nelle case di Trieste e dintorni, durante i 40 giorni di occupazione jugoslava della città (dal 1° maggio 1945). A Basovizza questa povera gente veniva deportata con degli autocarri della morte. Sovente queste persone erano state torturate, picchiate, brutalizzate, derubate e, nel caso fossero donne, violentate. Questi, con le mani straziate dal filo di ferro e spesso avvinti fra loro a catena, venivano sospinti a gruppi verso l’orlo dell’abisso. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Sul fondo chi non trovava morte istantanea dopo un volo di 200 metri, continuava ad agonizzare tra gli spasmi delle ferite e le lacerazioni riportate nella caduta tra gli spuntoni di roccia.

Magazzino 18 – Con il Trattato di pace di Parigi del 1947 l’Italia fu costretta a cedere vasti territori dell’Istria e della Dalmazia ai nuovi vincitori, gli jugoslavi comunisti, e circa 300mila italiani che lì vivevano, dovettero abbandonare quelle terre, quelle case, quei campi che non sarebbero mai più stati italiani. E dovettero andare in Italia, un Paese che però li considerava stranieri, fomentato soprattutto dalle sinistre che vedeva i profughi giuliani e dalmati come invasori, mentre oggi ci tengono a farci invadere dagli africani. Queste persone, sulla cui tragedia c’è stata una autentica congiura del silenzio da parte delle sedicenti democrazie europee durata 50 anni, si trovarono così stranieri in casa propria, esuli per sempre. A ricordare la loro drammatica vicenda c’è tuttora a Trieste, al Porto Vecchio, il famoso Magazzino 18, che era un enorme magazzino dove chi partiva depositava temporaneamente – sperava – le cose che non poteva portare con sé, con la speranza un giorno di poterne rientrare in possesso. Molti non poterono mai tornare, e così a ricordare quella storia sono rimasti testimoni eloquenti materassi, soprammobili, fotografie, giocattoli, masserizie di ogni tipo, insomma oggetti della quotidianità dimenticati e abbandonati. E’ un magazzino che si fa monumento alla memoria, alle vite interrotte dall’esodo: ma oggi è una cosa preziosa per gli esuli e i figli degli esuli, perché consente di riannodare i fili di un passato che si credeva perso per sempre. E quelle sedie accatastate, quelle macchine da cucire rotte, quei fornelli mai più usati, ricordano al viandante che visita il magazzino come avrebbe potuto essere la vita e come non è stata.

Museo di Padriciano – Era fino agli anni Settanta un Centro di raccolta profughi – per italiani – e oggi è uno degli allestimenti espositivi più visitati di tutta la regione. Il museo è ubicato in un’area che conserva assolutamente inalterata quella che era la sua struttura originaria. Era diciamo il centro di prima accoglienza per quegli italiani che fuggivano dalla ferocia dei titini, il più vicino alle zone rubate dalla Jugoslavia con la complicità dei cosiddetti alleati e dei deboli governi italiani. In quegli anni del dopoguerra furono aperti molti altri centri profughi in Italia, a Napoli, a Roma, e nel Nord. Gli unici, neanche a dirlo, che andavano a visitare questi campi profughi per i nostri compatrioti erano i parlamentari del Msi e le sue organizzazioni benefiche, in genere guidate da donne volenterose e combattive, non di rado provenienti dalle file delle Ausiliarie della Repubblica Sociale. Come è noto alla nostra comunità umana e politica, uno di questi rifugi per gli esuli dopo la guerra, già nel 1946, furono proprio quelle abbandonate rovine del Colle Oppio, veri ruderi, ma che se non altro garantivano riparo dalla pioggia e dal freddo. E’ per questo che ancora oggi la sezione del Msi che sorse in quel luogo, si chiama ancora “Istria e Dalmazia”. Per questo il museo di Padriciano è una tappa fondamentale per chi voglia approfondire la storia terribile e sconosciuta dei nostri connazionali cacciati per sempre dalla loro patria e accolti in modo ostile dalle sinistre italiane. La visita è molto interessante perché si tratta di un’area unica, ossia che non abbia subìto modifiche dopo la sua dismissione. Non era un campo come quelli che oggi abbiamo per i clandestini stranieri, che sono praticamente degli alberghi. Il campo di Padriciano era poco meno di una prigione, la circolazione non era libera e di notte i cancelli venivano chiusi: nessuno poteva entrare né uscire. Le baracche erano prive di riscaldamento e di acqua corrente, ed erano ricoperte con lastre di aminanto-cemento tipo eternit. Altro che i Cara o Cia di oggi…

Sacrario di Redipuglia – E’ certamente il più conosciuto di tutti i luoghi della memoria sin qui citati, anch’esso visitato da moltissime persone ogni anno. Si tratta di un grande cimitero monumentale militare costruito dal governo fascista per ricordare degnamente centomila soldati italiani caduti durante la Grande Guerra. Non è in provincia di Trieste ma nella vicina Gorizia. E’ il più grande sacrario militare d’Italia e uno dei più grandi al mondo, con i suoi cento ettari che furono teatro di aspre battaglie durante il primo conflitto mondiale. Il sacrario serve oggi come luogo di celebrazione dei quasi 700mila caduti italiani. C’è una grande e suggestiva scalinata di pietra con i “presente!” che è posta di fronte alla collina dove era il vecchio cimitero di guerra i cui resti sono stati traslati nel sacrario. Nel sito sono conservati trincee, camminamenti, gallerie, crateri, munizioni inesplose, nidi di mitragliatrici a ricordo del conflitto. Gli artefici di quest’opera enorme e bellissima furono l’architetto Giovanni Greppi e lo scultore Giannino Castiglioni. Iniziato nel 1935, il sacrario fu inaugurato da Benito Mussolini nel 1938. Una curiosità: tra gli oltre centomila sepolti, vi è una sola donna, la crocerossina Margherita Kaiser Parodi Orlando, morta appena 21enne.

Inoltre l’intera città di Trieste sarà mèta per tutta la durata del Congresso di Fratelli d’Italia come città della memoria, in ricordo anche di quei giorni drammatici del novembre 1953 – che oggi i giovani non conoscono perché non vengono loro raccontati – quando vi fu un autunno di speranza che però si macchiò del sangue di sei giovani patrioti che vogliamo qui ricordare: Addobbati, Paglia, Montano, Zavadil, Manzi, Bassa, tutti triestini, tutti innamorati dell’Italia. Numerosi i feriti, gli arresti e i latitanti. A differenza di altri episodi analoghi, però, stavolta lo Stato si è preso le proprie responsabilità, sia pure con un ritardo di mezzo secolo. In occasione del cinquantenario del ritorno di Trieste all’Italia, il presidente della repubblica ha insignito della Medaglia d’Oro al Valor civile quei sei giovani triestini.

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *