Il Papa si è piegato ai comunisti birmani e non ha difeso i rohingya

29 Nov 2017 17:20 - di Antonio Pannullo

Papa Francesco non ha avuto il coraggio di usare la parola “rohingya” nel suo viaggio apostolico in Myanmar, l’ex Birmania. Ha dovuto sottostare ai diktat della giunta militare comunista al potere, per evitare ritorsioni contro la minoranza musulmana, considerata dal regime senza diritto a risiedere in Myanmar. Papa Bergoglio è tanto pronto a invitare clandestini in Italia quanto timoroso di battersi per una delle comunità più perseguitate del pianeta. Persino le associazioni solitamente a lui vicine stavolta lo hanno criticato: “È un peccato che papa Francesco non abbia usato la parola Rohingya durante il suo discorso in Myanmar, ma il suo appello per il rispetto di tutti i gruppi etnici e per una società inclusiva è benvenuto”. Lo ha dichiarato Ming Yu Hah, vicedirettrice delle campagne sull’Asia sudorientale e il Pacifico di Amnesty International. ”La visita di papa Francesco ha contribuito ad attirare l’attenzione internazionale su Myanmar e sugli orrendi crimini che vengono commessi quotidianamente contro la popolazione Rohingya”, ha sottolineato. ”A fare scandalo durante questa visita è stata l’insistenza del comandante delle forze armate di Myanmar, Min Aung Hlaing, secondo il quale “non c’è alcuna discriminazione tra gruppi etnici nel Paese”. Dichiarazione alla quale Bergoglio non ha saputo o voluto replicare. “La realtà è che le autorità di Myanmar hanno intrappolato i Rohingya in un sistema di repressione e segregazione che equivale al crimine contro l’umanità di apartheid. Negli ultimi mesi le forze armate di Myanmar, di cui Min Aung Hlaing è comandante, hanno portato avanti una crudele campagna di pulizia etnica contro i Rohingya”, ha sottolineato Ming Yu Hah. ”Anche altre etnie e minoranze religiose di Myanmar subiscono discriminazioni e violazioni dei diritti umani da parte delle forze armate. Queste violazioni devono cessare, i diritti umani di tutti i gruppi etnici devono essere rispettati e gli autori dei crimini nei loro confronti devono risponderne, a prescindere dal grado o dalla posizione che ricoprono. Su questo, ora, la comunità internazionale deve mantenere alta l’attenzione”.

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