Onora il padre e non la madre. Genitori e figli nei libri appena usciti

12 Nov 2017 10:06 - di Redattore 54

I padri sono troppo assenti, risultano evanescenti, spesso inadeguati. Ma, quando non lo sono, scrivono, confessano i loro dubbi e le loro gioie genitoriali. Azzardano speranze, buttano giù consigli del mestiere. Letterariamente parlando, dunque, i padri sono più che presenti. Sono addirittura presenzialisti.

L’ultimo nato del filone saggistico sui padri che parlano di se stessi è il libro di Pierluigi Battista, A proposito di Marta (Mondadori), in cui si ribaltano i troppi luoghi comuni sui giovani bamboccioni e si tratta il tema “figli” come una scoperta quotidiana: “Racconto quello che ci è capitato e ci capita, la scoperta di cosa sia abissalmente cambiato nel mio mondo e quanto sia diverso il suo quando abbiamo a che fare con la politica, la musica, la lettura dei giornali, la fede, tutto”.

battista

In pratica, il libro di Battista fa capire quanto ogni generazione di padri si senta scavalcata dalla nuova: un processo inesorabile che fa diventare retroguardie quelle che si sentivano avanguardie.

Ma non c’è solo Battista. Un altro giornalista e saggista, Antonio Polito, si è di recente confrontato col tema della paternità trasformata. Polito non si accontenta del raffinato racconto dell’esperienza quotidiana. La butta sul filosofico già dal titolo, Riprendiamoci i nostri figli (Marsilio), che è un’esortazione al ritorno della paternità responsabile. Un’impresa ardua, quasi titanica, sicuramente destinata al fallimento visto che la generazione di Polito è quella che ha assistito al crollo della famiglia e del principio di autorità, e che ha vissuto quella che Jacques Lacan chiamava “l’evaporazione del padre”.

polito

“Mai genitori furono più destituiti di autorità – ha scritto Titti Marrone sul Mattino – e quindi più soli, nello sfaldamento di uno straccio di alleanza tra famiglia, scuola, ma anche chiesa, parrocchia, associazione o agenzia educativa di qualche tipo”. Sono soli i padri che non sanno più fare i padri, sono soli i figli. E allora la scrittura supplisce, denuda il problema, smaschera una realtà degradata, lancia l’allarme principale – quello sull’educazione – da cui discendono tutti gli altri ingredienti tossici di una crisi etica smisurata e sconsolante. E allora fare i padri può sembrare troppo difficile, ma da un punto fermo si può ricominciare: trasmettere valori.

Poi ci sono padri che con i figli non riescono proprio a parlare, perché questi ultimi sono troppo immersi nel mondo parallelo della rete per aver tempo e  voglia di scambiare due chiacchiere col genitore. E anche di questo tema, che tutti abbiamo sperimentato, se ne fa un libro. L’autore è Aldo Cazzullo, il titolo è ancora una volta un’esortazione, un invito a riprendere il filo fragile di una comunicazione interrotta ma imprescindibile, Metti via quel cellulare (Mondadori).

cazzullo

I padri scrivono, dunque, e si riprendono la scena letteraria. Ma –avverte lo psicologo Massimo Recalcati – questo ritorno del padre e della paternità nella narrazione contemporanea non rimanda alla figura del padre-bussola, ma a quella del padre-testimone, colui che insegna ai figli che la vita può avere un senso ma senza pretendere di indicare la rotta. E’ un segnale positivo, perché sottende la ricerca di una missione anche da parte dei padri, oltre la sterile osservazione lamentosa dei difetti dei figli oggetto del ritratto sfornato anni fa da Michele Serra nel suo Gli sdraiati (Feltrinelli).

E le madri? Le madri sembrano indifferenti alla narrazione della loro esperienza. Se lo fanno, come nell’ultimo romanzo di Silvia Avallone, Da dove la vita è perfetta, raccontano la maternità come un destino impossibile, di lacerazione e infelicità. Infatti oggi, se l’evaporazione del padre è fenomeno ormai digerito e interiorizzato, non vi è ancora piena consapevolezza dell’attacco culturale cui il ruolo delle madri è sottoposto.

avallone

Esse si muovono ancora tra i cascami ideologici di una visione della maternità come handicap che ha dato i suoi frutti nefasti nelle algide cifre statistiche sulla denatalità. Simone de Beauvoir, nel libro Il secondo sesso, considerato una sorta di Bibbia del femminismo, nega con fermezza che la maternità possa rappresentare per le donne un terreno di crescita e sviluppo: “Generare, allattare non sono attività, sono funzioni naturali in cui non è impegnato alcun fine esistenziale”. Ne è scaturito tutto un filone di pensiero che ha negato in profondità quello che lo studioso del matriarcato, J.J.Bachofen, chiamava “il potere delle madri”, oggi messo in discussione dallo strapotere della tecnologia e dal pensiero gender che invoca il diritto all’ambiguità sessuale. Ciò che viene coinvolto, in questo processo culturale, non è solo il ruolo classico delle madri, ma la stessa identità delle persone. Il filosofo Costanzo Preve ammoniva le società occidentali sul fatto che un individuo, privato di scopi spirituali, obbligato al pensiero unico e alla fine privato di un’identità stabile può essere solo un perfetto consumatore seriale o un candidato al suicidio. Il corollario logico di questo panorama è il passo indietro delle madri, che non scrivono perché sono sotto attacco, si sono fatte guardinghe, e silenziose.

Dieci anni fa in un libro intitolato La scomparsa delle donne Marina Terragni, che oggi è tra le femministe più attive nel combattere la pratica dell’utero in affitto, riconosceva che sul valore ideale della maternità era giunto il momento di rimettere le cose in ordine: “Ci vuole una politica del desiderio e del simbolico – scriveva – che dia importanza all’essere madre, che le madri le ammiri. Che rimetta al centro la nascita, in quanto ‘possibilità di cominciare e ricominciare sempre’, dice Julia Kristeva, come ‘fondamento ontologico’ di libertà. Che pensi la cura come un valore tra i più pregevoli”. In definitiva, bisognerebbe tornare ad “inchinarsi a ciò che è femminile”. Davvero impossibile, in anni in cui siamo tutti impegnati a conteggiare i femminicidi. A meno che le madri, come i padri, non si rimettano a scrivere, a raccontarsi, a dare una traccia, a lasciare il segno di un’auspicabile inversione di tendenza.

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