L’Isis massacra i sufi. L’Egitto di Al Sisi in prima linea contro il terrore

29 Nov 2017 12:49 - di Marco Valle

Morto più morto meno, sono almeno trecento le vittime della strage alla moschea di Rawdah, la “zawia” dei sufi egiziani. Un luogo di preghiera e pace. Nel Sinai. Un punto incastonato, come il convento di Santa Caterina, tra l’Africa e il Levante. Da Mosè in poi, un punto di passaggio, d’incontro.

L’Egitto piange i suoi morti. Unito. Le campane delle chiese copte hanno suonato per  i caduti e il presidente Al Sisi, dopo aver disposto una spietata risposta militare, ha ordinato la costruzione immediata di un mausoleo sul luogo della strage.

I morti di Rawdad sono islamici, musulmani. Uomini, donne e bambini. Credevano nello stesso Dio dei loro carnefici ma i terminali dell’Isis non hanno per loro avuto pietà. Nessuna pietà.

La loro colpa? Essere dei sufi, una dimensione interiore e contemplativa dell’Islam. Gente riservata, pacifica e profonda. Persone meravigliose con cui ho discusso per tutta una notte, proprio a Rawdah, sui nostri destini. Con rispetto. Davanti ad un fuoco. Ricordi.

Ma per i macellai dell’Isis e dintorni, i sufi meritano la stessa sorte dei cristiani copti egiziani, degli sciiti, degli yazidi, degli ismailiti, degli alauiti, della assoluta maggioranza degli sunniti. Tutti eretici. Tutti miscredenti. Tutti colpevoli. Da ammazzare.

In nome di cosa? Di una visione delirante dell’Islam, il wahabismo. Una oscura setta sorta nel XVIII° secolo tra le sabbie dell’Arabia e impostasi, grazie al clan dei Saud,  come dottrina ufficiale del regno. Nel contesto della guerra fredda i wahabiti  vennero utilizzati dagli anglo-americani: Obama Bin Laden fu roba di Washigton e Londra. Lo sceicco serviva in Afghanistan contro i sovietici e in Bosnia verso i serbi. Una “guerra empia” nel segno del petrolio, degli affari. Poi il miliardario saudita decise di giocare in proprio la sua partita. Il resto, 11 settembre compreso, fu una conseguenza.

Da qui la guerra inter-islamica tra sciiti e suniti, le “primavere arabe”, il “califfo nero”, l’Isis, le mattanze di Parigi, Londra, Berlino, Nizza, Barcellona e tutto il resto. Un disastro pieno che investe oggi l’Europa. Casa nostra.

Tanti, troppi gli errori dell’Occidente. Uno tra tutti. Ieri il Belgio ha deciso, finalmente, di chiudere le porte ai predicatori wababiti a cui, con un accordo del 1967 con i sauditi, aveva “affidato” l’educazione e il controllo della comunità islamica. Uno sbaglio fatale che ha ridotto il centro storico di Bruxelles in un terminale della Mecca e/o in ufficio reclutamento del terrore.

Non illudiamoci. L’inedita risolutezza belga è un segnale necessario ma parziale. L’infezione è inarrestabile sinchè il “cuore di tenebra” dello jihadismo rimane pulsante. Come ha avvertito Al Sisi, è compito delle tante voci dell’Islam fermarlo e schiacciarlo. Prima che sia troppo tardi.

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