Omicidio Fragalà, la figlia in aula: «la mafia lo chiamava l’avvocato sbirro» (video)

26 Ott 2017 19:06 - di Paolo Lami

Cosa Nostra lo aveva soprannominato “l’avvocato sbirro” perché consigliava ai suoi clienti risucchiati dalla mafia di aprirsi con i magistrati. Una scelta difensiva strategica e, ancora di più, etica, che aveva consentito a parecchi imprenditori, costruttori, professionisti e pesci piccoli di evitare condanne pesantissime. Consegnando, però, alla giustizia i più oscuri segreti dei clan. Ma quella scelta che l‘avvocato penalista Enzo Fragalà, parlamentare di Alleanza nazionale, aveva portato fino in fondo, fino al punto di leggere in aula una lettera che finiva per ridicolizzare apertamente Cosa Nostra, diventerà la sua condanna a morte da parte delle cosche.

Lo ha ricordato oggi, in aula, al processo in corso a Palermo per l’omicidio, a colpi di bastone, di Enzo Fragalà, la figlia Marzia, anch’essa avvocato penalista. E lo ha confermato la collaboratrice più stretta di Enzo Fragalà, l’avvocato Loredana Lo Cascio. Che ha raccontato, oggi, i processi più delicati nei quali il parlamentare di An era coinvolto come difensore. Le sue scelte non solo strategiche ma, appunto, ancor di più, etiche contro i clan. E, soprattutto, il processo in seguito al quale Cosa Nostra giudicò che la misura era colma. E decretò che Fragalà doveva essere punito senza appello per essersi permesso di inchiodare alle proprie responsabilità i grandi boss inducendo i pesci piccoli, suoi clienti, a tradirli, a dire tutto ai magistrati, a violare le severe e rigidissime regole di omertà che la mafia prevede.

Fra i suoi clienti, Enzo Fragalà aveva perlopiù imprenditori, costruttori e professionisti che erano stati risucchiati da Cosa Nostra e che, a un certo punto, si erano ritrovati a gestirne i soldi, in qualche caso persino inconsapevolmente. Come accadde a Salvatore Fiumefreddo, 55 anni, ragioniere e impiegato in un’azienda edile di proprietà dell’imprenditore Francesco Pecora, 69 anni, anche lui finito in manette per lo stesso motivo e Vincenzo Marchese, 62 anni, vigile del fuoco in pensione anche lui arrestato, come gli altri tre, nel novembre del 2008. Tutti e tre furono accusati di essere legati al capomafia di Pagliarelli, Antonino Rotolo arrestato nel giugno 2006 nell’operazione Gotha e che già in passato aveva subito sequestri di beni. Ed Enzo Fragalà divenne il difensore di tutti e tre. Davanti avevano prospettive di carcerazioni lunghissime. Molte certezze iniziarono a incrinarsi in quelle teste.

Enzo Fragalà esce dallo studio legale prima dell'agguato mortale

Enzo Fragalà esce dallo studio legale prima dell’agguato mortale

Enzo Fragalà, quale legale di fiducia, li convinse ad ammettere gli episodi di cui erano accusati, ad aprirsi ai magistrati che avevano di fronte tradendo le rigide regole di Cosa Nostra, violandone i precetti, i patti, i princìpi di omertà.

Fu, per la mafia, un affronto indicibile. Forse il peggiore. Soprattutto perché commesso da un avvocato, come Enzo Fragalà, che aveva osato pubblicamente rifiutare, in passato, la richiesta di Totò Riina di difenderlo, perché il parlamentare di An era stato compagno di Università di Borsellino.
A complicare le cose ci si misero le conseguenze dei racconti che quei pesci piccoli fecero ai magistrati. Una catastrofe per la cosca dei PagliarelliFiumefreddo, considerato il ragioniere del boss Rotolo, fece dichiarazioni così pesanti che ci furono sequestri di beni enormi per il capomafia Antonino Rotolo. Interrogato raccontò tutto, come gli aveva consigliato il suo avvocato Enzo Fragalà.

A riprova di quanto fu disarticolante ed esplosiva per Cosa Nostra la strategia difensiva adottata dall’avvocato Enzo Fragalà con i suoi clienti, ci sono i “pizzini“, ritrovati nel covo, proprio dietro al Tribunale di Palermo, dove la Sezione Catturandi della polizia arrestò, il 5 dicembre 2009, dopo tre anni di latitanza, l’allora ventottenne Gianni Nicchi, figlioccio del boss Rotolo di cui aveva preso il posto alla guida del clan Pagliarelli dopo l’arresto del capomafia. Per comprendere lo spessore criminale di Nicchi, in fortissima ascesa nell’organigramma mafioso e considerato uno dei nuovi boss di Cosa Nostra a Palermo, basti pensare che Rotolo lo inviò, come suo emissario personale, a trattare, negli Stati Uniti, con le più importanti famiglie mafiose e controllare il ritorno degli Inzerillo a Palermo costretti alla fuga oltreoceano dalla guerra mortale fra i clan.

Il giorno dell’arresto di Nicchi, in quel covo beffardamente piazzato nei pressi del Tribunale di Palermo, gli agenti della Catturandi ritroveranno un pizzino , indirizzato da Nicchi a un altro prestanome del boss Rotolo, Raffaele Sasso, nel quale si cita un articolo uscito su giornale che riferisce dell’interrogatorio di Fiumefreddo. E si parla, con disprezzo di quegli “indegni”, cioè di Fiumefreddo e Marchese, che avevano confessato su consiglio del loro avvocato Enzo Fragalà. L’ira di Cosa Nostra contro il penalista è alle stelle.

Ma la goccia che fa traboccare il vaso arriva durante un’udienza del processo in cui è coinvolto Vincenzo Marchese, vigile del fuoco in pensione, amico del boss Rotolo e suo prestanome, esattamente 4 giorni prima che Cosa Nostra ammazzi a bastonate Enzo Fragalà.

Fragalà ha convinto il suo cliente Marchese a dire ciò che sa e a prendere le distanze dalla mafia e dal suo ex-amico, il boss Rotolo. E Marchese, che si sente tradito, dal capomafia, consegna al suo avvocato, Fragalà, una lettera che gli è arrivata dalla moglie del boss, Antonietta Sansone, nella quale la donna si scusava per averlo coinvolto nel riciclaggio di denaro. A Marchese, infatti, era stato detto di recuperare, custodire e investire 500 milioni di vecchie lire frutto – gli viene raccontato – di una vincita al Lotto ma, in realtà, derivati dall’attività criminale della cosca.

A sorpresa, durante l’udienza, l’avvocato Fragalà legge, in aula, ad alta voce, la lettera firmata dalla moglie del capomafia di Pagliarelli, Antonino Rotolo. Una sfida che per Cosa Nostra è l’ultimo affronto. E induce la mafia a passare alle vie di fatto.

Racconterà il primo giugno di quest’anno, ai pm che lo interrogano, il neo-pentito Salvatore Bonomolo spiegando così l’agguato mortale contro Enzo Fragalà compiuto da mafiosi del clan Porta Nuova: «Fu un favore fatto a “chiddi i da supra (quelli di là sopra)“. Cioè, appunto, i mafiosi dei Pagliarelli. «Pagliarelli cade nel mandamento di Porta Nuova – spiega il pentito ai pm che lo interrogano – non è che potevano venire quattro e facevano una cosa così senza avvisare nessuno: Pagliarelli e Porta nuova sempre si sono fatti i favori».

Ascoltata in aula, la figlia di Enzo Fragalà, Marzia, ha ricordato oggi come apprese da un cliente del padre l’appellativo che gli veniva riservato: «Dopo la sua morte ho preso io le redini, sentivo di dover essere presente. E c’è un episodio che ricordo bene, quando ho sentito quell’appellativo per la prima volta». Era nella sala colloqui del carcere Pagliarelli per incontrare, quale penalista, Onofrio Prestigiacomo, un cliente del padre divenuto oggi collaboratore di giustizia e accusato, all’epoca, di aver messo a disposizione dei clan un casolare di campagna per i summit: «Mi disse – ricorda l’avvocato Marzia Fragalà – che in carcere mio padre era chiamato l’avvocato sbirro e che per essersi rivolto a lui, gli altri detenuti lo sbeffeggiavano, subiva vessazioni e minacce, gli dicevano tutti che lo avrebbe indotto a parlare, che doveva cambiare avvocato difensore. Gli dissi di stare calmo. Era un momento di grande confusione. Prestigiacomo venne condannato e poi collaborò con la giustizia».

Una circostanza confermata anche dall’avvocato Loredana Lo Cascio: «Ricordo che nell’ambiente carcerario lui era appellato come “lo sbirro” per questa sua tendenza, in situazioni di evidenza probatoria, ad assumere un atteggiamento di apertura con l’autorità giudiziaria».

Ed infatti, nell’ordinanza con la quale il gip Fernando Sestito manda in carcere i sei mafiosi accusati dell’agguato mortale a Enzo Fragalà c’è scritto: «l’aggressione all’avvocato Fragalà è stata deliberata per ragioni che l’organizzazione mafiosa ha ritenuto particolarmente gravi. Per punire condotte processuali che sono state ritenute del tutto incompatibili con l’interesse dell’organizzazione e pericolose, in particolare, per la salvaguardia di concreti e rilevanti interessi economici e , ancora prima, della fondamentale e irrinunciabile pretesa mafiosa alla salvaguardia delle regole dell’omertà e reciproca assistenza che caratterizzano la condotta di ogni associato nel momento del coinvolgimento in inchieste e giudiziarie. C’era il sempre più diffuso convincimento che Fragalà, nei procedimenti per reati di mafia si comportasse sempre più spesso da sbirro in particolare inducendo i suoi assistiti a violare la tradizionale regola del silenzio».

Ma tutto questo non fu percepito nell’immediatezza. Ricorda l’avvocato Lo Cascio ripercorrendo i momenti subito successivi all’agguato mortale: «dopo aver appreso l’accaduto, ricordo che tutti noi colleghi dello studio eravamo terrorizzati, avevamo paura, non sapevamo cosa poteva aver innescato un’aggressione così brutale. Aveva una clientela abbastanza variegata e nello svolgimento della sua attività professionale era sempre sereno, faceva questo lavoro con grande passione». Probabilmente neanche Enzo Fragalà si rese realmente conto quanto la mafia desiderasse punirlo.

Quella sera del 23 febbraio del 2010 uscì dal suo studio legale senza immaginare minimamente cosa lo attendeva. Le immagini delle telecamere che inquadrano dall’interno la porta dello studio riprendono Enzo Fragalà che si avvia all’uscita, sereno come sempre, i fascicoli sotto al braccio sinistro, pochi minuti prima di essere ammazzato. «Quella sera ero al corso prematrimoniale e accesi il telefono alle 22 – ricorda la figlia Marzia – Appena seppi cosa era accaduto mi precipitai in ospedale. Nei giorni precedenti non ho notato nulla di strano. Era un momento felice della nostra vita e papà non non sembrava preoccupato. Mi stavo sposando e lui partecipava a tutti i preparativi».

Con fatica Marzia ha ricostruito in aula i ricordi prima che, di concerto, pubblici ministeri e avvocati, sia di parte civile che degli imputati, decidessero di acquisire le sue precedenti dichiarazioni per rispetto e per evitarle un doloroso interrogatorio: «Ero praticante ma prima dell’esame di abilitazione nel 2009 mi ritirai per studiare. Poi a giugno mi sarei dovuta sposare e quindi mi allontanai. Studiavo nello studio di papà dal tempo dell’università. Partecipavo ai processi più importanti quando mi diceva di scendere in Tribunale. Papà era presente al mio esame da avvocato ma al giuramento, a marzo, non ci fu. Era già morto».

In aula è stata anche sentita Gaia Alongi uno dei 9 testimoni oculari dell’agguato che le telecamere della zona, in particolare del negozio Mail Boxes e dell’allora Banco di Sicilia, riprendono mentre lei e gli altri arrivano sul luogo. La donna arriva quando l’aggressione è già in corso.

La mappa del luogo dell'omicidio Fragalà e le telecamere della zona

La mappa del luogo dell’omicidio Fragalà e le telecamere della zona

«Ho sentito un rumore alle mie spalle, da lontano – racconta Gaia Alongi – Un rumore forte e sordo, come di una botta, di un legno. Mi sono girata e ho visto una persona chinata che colpiva più volte e con violenza un’altra persona stesa per terra».
Accanto a lei, in quel momento, c’è un’altro testimone, Giovan Battista Bongiorno. Che negherà, ripetutamente, agli investigatori e agi inquirenti di aver visto l’aggressione. Ma viene smentito sia dalle telecamere del negozio Mail Boxes che lo riprendono mentre guarda proprio verso Fragalà che in quel momento viene colpito dal killer, sia dalla stessa Alongi che agli investigatori dice, ricordando quegli attimi drammatici, di essersi rivolta, sconvolta, proprio a Bongiorno, che non conosceva: «Vedi anche tu la stessa scena che vedo io?». Sono circa le 20.30. L’aggressore fugge. Anche la Alongi, come gli altri testimoni, ricorda che il killer indossa abiti scuri  e un casco. E con la mano impugna un oggetto, il bastone con cui ha colpito a morte Enzo Fragalà.

Gaia Alongi racconta di essersi avvicinata a Enzo Fragalà che è a terra e che sta sanguinando. Non ha la minima idea di chi sia, non l’ha mai visto. Cerca di rassicurarlo e di chiamare i soccorsi. Che sollecita per tre volte. Ricorda di essere salita a casa per cercare qualcosa con cui medicare Enzo Fragalà: «Era sporco di sangue – racconta in un’aula pietrificata – cercava di alzarsi mettendo le mani sul muro. Diceva di voler andare al bagno, ma noi cercavamo di non farlo muovere, non sapevamo se avesse qualcosa di rotto. È rimasto fra le nostre braccia, così».

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