La mafia non era Capitale, ecco perché i giudici hanno bocciato Pignatone

17 Ott 2017 19:54 - di Paolo Lami

Né derivata da altre mafie, né autonoma. Semplicemente non era mafia l’organizzazione criminale che la Procura di Roma, guidata da Giuseppe Pignatone, riteneva fosse mafiosa e che un certo milieu ideologico-giornalistico aveva pomposamente ribattezzato Mafia Capitale infangando, senza troppi complimenti e in maniera indegna e irreparabile l’immagine di Roma per questioni di carriera e di tornaconto politico. E’ nelle oltre 3.000 pagine di motivazione della sentenza che ha chiuso il processo di primo grado, cosiddetto appunto, “Mafia Capitale“, a Carminati e ai suoi coimputati la spiegazione del perché il Tribunale di Roma ha bocciato l’assunto perseguito da Pignatone e dai suoi pm.

Il Tribunale «non ha individuato, per i due gruppi criminali», quello presso il distributore di Corso Francia e quello riguardante gli appalti pubblici, «alcuna mafiosità “derivata” da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose» scrivono i giudici della X Sezione penale presieduta da Rosanna Ianniello nelle 3200 pagine di motivazioni della sentenza al processo al “Mondo di mezzo“, rinominato da suggestivi cronisti “Mafia Capitale“. Per i giudici le due associazioni non sono caratterizzate neppure da mafiosità “autonoma”.

Una rilettura del materiale processuale che ha scardinato nelle fondamenta e, poi, fatto crollare il castello accusatorio così com’era stato costruito da Pignatone e dai suoi tre pm: Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli.

Deve quindi ribadirsi, si legge ancora nelle motivazioni della sentenza firmata dalla Ianniello prima di lasciare Roma per Terni del cui Tribunale è diventata presidente, «l’impossibilità di tenere conto, ai fini della configurazione del reato di cui all’articolo 416 bis codice penale (l‘associazione mafiosa, appunto, ndr) di eventuali condotte qualificabili come “riserva di violenza”, condotte che possono riguardare soltanto le mafie “derivate”, le uniche in grado di beneficiare della intimidazione già praticata dalla struttura di derivazione».

Il concetto di ”mafiosità”, cui più volte hanno fatto riferimento gli accusatori nel processo al “Mondo di Mezzo”, «non è quello recepito dal legislatore nella attuale formulazione della fattispecie di cui all’articolo 416 bis codice penale per la quale, come già detto, non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione», aggiungono i giudici che hanno bocciato la ricostruzione di Pignatone.

Ma i giudici della X Sezione del Tribunale di Roma vanno ancora più in là dando un ulteriore dispiacere a Pignatone, sconfitto pesantemente nel suo teorema: «non è possibile – scrivono – stabilire una derivazione tra il gruppo operante presso il distributore di benzina, l’associazione operante nel settore degli appalti pubblici e la banda della Magliana, gruppo criminale organizzato e dedito ad attività criminali particolarmente violente e redditizie che ha operato nella città di Roma, ramificandosi pesantemente sul territorio, oltre 20 anni orsono, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90».

Quanto al “mito” di Massimo Carminati è «destinatario, per l’importanza delle vicende giudiziarie in cui è stato coinvolto e per l’interesse mediatico che le ha accompagnate, di una notevole e duratura fama mediatica, che ne ha consolidato l’immagine e gli ha creato intorno un alone di inafferrabilità: per essere sopravvissuto; per aver riportato, per quelle vicende, condanne complessivamente modeste; per essere andato assolto da alcune gravi imputazioni», sottolineano i giudici della “Decima” facendo capire che i magistrati romani si sono lasciati un po’ trasportare da certe articolesse che hanno ingigantito ad arte il mito.

«Fama a parte – insistono i giudici togliendo il velo a una manovra mediatica con la quale più di qualcuno si è costruito una scintillante carriera giornalistica – l’esistenza di un collegamento soggettivo non significa, però, automatico ripristino o prosecuzione del gruppo precedente: non è sufficiente l’intervento di Carminati, ”erede della Banda della Magliana”, a stabilire un rapporto di derivazione tra detta banda e successive organizzazioni in cui Carminati si trovi coinvolto. Peraltro, neppure per la Banda della Magliana si è potuti giungere ad affermare che si trattasse di un’associazione di tipo mafioso». Un altolà netto a certe elucubrazioni tanto giudiziarie quanto giornalistiche che, al netto della sentenza, hanno prodotto qualche romanzo fatto passare per saggio.

I giudici poi affrontano la questione dei rapporti squisitamente politici e, soprattutto, consolidati che Buzzi ha potuto coltivare allegramente con le diverse amministrazioni targate centrosinistra negli anni in cui il centrosinistra ha governato la Capitale.

Nel settore degli appalti pubblici «l’associazione – scrivono i giudici della decima sezione penale – ha avuto la capacità di inquinare durevolmente e pesantemente, con metodi corruttivi diffusi, le scelte politiche e l’azione della Pubblica amministrazione: ciò dimostra la pericolosità dell’associazione nel suo complesso ed anche quella dei singoli partecipi i quali, dotati di diversificate qualità professionali, le hanno fatte consapevolmente convergere verso la realizzazione dei loro propositi criminali».

«La lunga esperienza maturata da Buzzi nel settore della cooperazione sociale e gli stessi contatti, con politici ed amministrativi, costruiti nel tempo in relazione all’attività delle cooperative – rincarano la dose i magistrati – sono stati da lui sapientemente utilizzati e sfruttati per la commissione di reati finalizzati, consentendo una innaturale espansione sul mercato, a potenziare i profitti delle cooperative e dei soggetti che di esse avevano la direzione e la gestione».

«Il dato appare ancor più grave – rimarcano i giudici – ove si tenga conto del percorso di Buzzi, che pure aveva tentato di recuperare il suo passato criminale, e della conoscenza di tale percorso che avevano i suoi collaboratori e sodali, conoscenza che avrebbe dovuto indurre a salvaguardare l’esperienza della creazione di cooperative sociali finalizzate al recupero di ex-detenuti e non ad orientarle verso la commissione di reati gravi, e commessi in forma associata».

Piena, in definitiva, la bocciatura della tesi portata avanti da Pignatone rispetto all’idea di un’organizzazione mafiosa guidata da Carminati che, appunto, per i giudici non è mai esistita.

Il concetto di ”mafiosità”, cui più volte hanno fatto riferimento gli accusatori nel processo al “Mondo di Mezzo“, «non è quello recepito dal legislatore nella attuale formulazione della fattispecie di cui all’articolo 416 bis codice penale per la quale, come già detto, non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è, invece, necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione».

«Conclusioni obbligate, quelle del Tribunale (si tratta, peraltro, dello stesso collegio giudicante che nel 2015 riconobbe la mafiosità del clan Fasciani di Ostia, ndr), sia per la attuale formulazione dell’articolo 416 bis codice penale, sia per l’impossibilità di interpretazioni talmente estensive di tale norma da trasformarsi, con violazione del principio di legalità, in vere e proprie innovazioni legislative che rimangono riservate al legislatore». Come dire: non è compito dei magistrati quello di scriversi le leggi. C’è un giudice a Berlino.

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