Cent’anni fa la disfatta, ma per l’Italia è sempre Caporetto

22 Ott 2017 12:32 - di Aldo Di Lello

La poco brillante storia militare dell’Italia ci costringe a ricordare poche vittorie e molte sconfitte. In questi giorni rievochiamo la disfatta di Caporetto,  cominciata la notte del 24 ottobre 1917, con un massiccio fuoco d’artiglieria da parte di austro-ungarici e tedeschi.   La memoria di Caporetto s’è innestata nell’immaginario collettivo italiano come il simbolo stesso del disastro bellico. Oggi, in un una intervista ad Aldo Cazzullo del Corriere della Sera, il capo di Stato maggiore  della Difesa, Claudio Graziano, afferma che, quella di Caporetto, “non fu una disfatta, ma una sconfitta”. In effetti, la pur disordinata ritirata dell’Esercito italiano dal fronte dell’Isonzo non portò alla sconfitta nella Grande Guerra, ma a una delle epopee gloriose della nostra storia: la battaglia del Piave, che fu poi la premessa della  battaglia del Solstizio e successivamente di Vittorio Veneto. Aggiungiamo inoltre che l’intero Paese dimostrò dopo Caporetto di avere in nervi saldi.  La destituzione di Luigi Cadorna come capo di Stato maggiore generale  e l’ascesa di Armando Diaz resero più razionale e incisiva la condotta delle forze italiane.

Una disfatta più “psicologica” che militare

Caporetto non fu quindi tanto una disfatta  militare quanto una caduta “psicologica” . La confusione, lo sbando, la voglia di fuga, la resa di interi reparti stupì tutti: gli italiani, gli alleati, gli stessi nemici. Non s’era mai vista, fino ad allora, un rotta così clamorosa e improvvisa di un esercito, come accadde a due armate, la II e la III, schierate sull’Isonzo. E’ come se gli italiani avessero all’improvviso perso la voglia di combattere, come se fossero stati colti tutti insieme da un rovinoso crollo emotivo. C’è da dire che i vertici militari italiani non erano abituati a una guerra difensiva, avendo condotto per due anni e mezzo una lunga serie di offensive proprio sul fronte dell’Isonzo, tutte iniziative che, se non avevo portato a risultati apprezzabili sul piano strategico, avevo però fortemente indebolito l’Austria-Ungheria, che non aveva più le forze, in quell’ottobre del 1917, per reggere ancora a lungo il confronto militare con l’Italia. A salvare gli austriaci fu il crollo della Russia, cosa che permise ai tedeschi di aiutare lo sfibrato alleato con l’invio sul fronte italiano di otto divisioni, tra le migliori dell’esercito del Kaiser. I tedeschi applicarono nell’occasione una efficacissima tecnica  militare, quella della veloce infiltrazione nel fronte avversario, cosa che mandò letteralmente in tilt i comandi italiani. Tra gli ufficiali germanici più valorosi si distinse un giovane e ardimentoso tenente, che venticinque anni dopo avrebbe fatto parlare di sé: Erwin Rommel, la futura volpe del deserto.

La disastrosa inerzia di Badoglio

Rimane in ogni caso l’incapacità dei generali italiani a contenere la falla che s’era aperta nello schieramento della II armata. Con più coordinamento, con un maggiore elasticità mentale, con riflessi più pronti, non saremmo probabilmente arrivati al disastro. E in tale ambito merita di essere ricordato il comportamento di un personaggio che avrebbe anch’egli fatto parlare di sé (ma questa volta non in modo lusinghiero) durante la Seconda guerra mondiale: Pietro Badoglio. A capo del XXVII corpo d’armata, non diede l’ordine, come avrebbe potuto e dovuto, di impiegare in modo massiccio l’artiglieria, una mancanza che contribuì non poco alla rottura del fronte italiano.

Caporetto metafora dei vizi nazionali

Disorganizzazione, lentezza, superficialità, scarso spirito di coesione: le lacune italiane mostrate a Caporetto sono un po’  lo specchio dei vizi nazionali. Il Piave e Vittorio Veneto ce li fecero per un po’ dimenticare, ma questa autentica tara dell’organizzazione pubblica nel nostro Paese si sarebbe rivelata (e in modo anche più rovinoso) in decenni successivi. Non è, beninteso, né un problema del nostro popolo né dello spirito italiano. E’ , più specificamente, un vizio delle classi dirigenti, la cui composizione non risulta spesso all’altezza  delle responsabilità  assegnate. Ed è per questo che lo spettro di Caporetto ogni tanto si è riaffacciato nella nostra storia. E continua, anche oggi, a riaffacciarsi.

 

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