Caso Contrada, i tormenti dell’anima e i dubbi eterni

8 Lug 2017 14:52 - di Lino Lavorgna
bruno contrada

Nella mia camera da letto vi sono quattro foto appese alle pareti: mio Padre, mia Madre, mio Fratello, Falcone e Borsellino. Ogni mattina, quando mi sveglio, i loro sguardi mi ricordano ciò che sono, da dove vengo, ciò che “devo essere”. Punto.

La premessa è d’obbligo, mentre mi accingo a commentare la recente sentenza della Corte di Cassazione che ha revocato la condanna a dieci anni inflitta all’ex numero due del Sisde, Bruno Contrada, accusato di concorso in associazione mafiosa. All’epoca dei fatti il reato non “era sufficientemente chiaro”, secondo quanto stabilito anche dalla Corte europea dei diritti umani, che nel 2015 condannò lo Stato italiano a risarcire Contrada. Un risarcimento irrisorio dal punto di vista economico, vano dal punto di vista pratico perché la pena era già stata scontata e importante solo sotto il profilo sostanziale: la decisione della Corte di Strasburgo, alla base della recente sentenza della Corte di Cassazione, inevitabilmente si ripercuoterà su altre vicende che presentano analoghi aspetti. In linea di principio non vi è nulla da eccepire: “Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali” è un concetto così scontato, da non consentire nemmeno di essere messo in discussione, a prescindere dalla controversa vicenda di cui è stato protagonista Contrada, che ha sostenuto la stessa tesi senza però riuscire a farla accettare dai giudici.

La disquisizione giuridica sulla norma, in verità, a me interessa poco, soprattutto ora che ha messo tutti d’accordo. Il punto focale è un altro: Contrada è innocente o colpevole? Ho sempre seguito con molta attenzione l’iter giudiziario dell’ex agente segreto, cercando di “entrare” nei meandri di una matassa intricata e pregna d’insidie che facilmente potevano mandare fuori strada. Da un lato il mio “intuito” propendeva per la sua innocenza; dall’altro, la forte stima nutrita nei confronti di alcuni suoi accusatori – sia ben chiaro: “alcuni”, non tutti – m’induceva a pensare che forse mi sbagliavo; che forse non avendo elementi sufficienti per un’approfondita analisi avevo preso fischi per fiaschi; che non potevo considerare il mio intuito “infallibile”, seppur mi aveva dato ragione tante volte. Il dubbio era l’unica certezza e quindi mi compenetravo nella difficoltà oggettiva di chi, per mestiere, era costretto a scioglierlo in un modo o nell’altro, dando per scontato un aspetto che comunque scontato non poteva essere: la buona fede e l’estrema correttezza procedurale dei soggetti chiamati a decidere.

Sono trascorsi venticinque anni dall’inizio della vicenda e il dubbio persiste, anche se devo ammettere che la bilancia pende “abbastanza” dal lato dell’innocenza. Vi sono vicende, purtroppo, destinate a restare irrisolte perché gli unici che potrebbero chiarirle, evidentemente, hanno tutto l’interesse a che restino tali. Permane il tormento di un uomo che, se innocente, ha trascorso venticinque anni d’inferno, non certo riparabili con la sentenza assolutoria.

Permane il tormento, inoltre, di altri “Grandi Uomini” che, sempre in caso d’innocenza, sono stati indotti a dubitare, a temerlo senza ragione, a considerarlo
un nemico di quello Stato che hanno servito con onore, invece che un compagno di strada con il quale condividere la battaglia contro il male. Se Contrada è colpevole, la Giustizia ha subito l’ennesima sconfitta per non essere stata in grado di fare piena luce, a prescindere dalla pastoia interpretativa sul concetto di “concorso esterno”. Il fatto che vi siano persone che sanno e non parlano contribuisce non poco a far pendere la bilancia da un lato anziché dall’altro.

Voglio citare, a tal proposito, un episodio che mi riguarda direttamente. Correva l’anno 2004. In quel periodo abitavo nella periferia Sud di Caserta, a poca distanza da un albergo che, di fatto, costituiva una “dependance” della mia villetta, in virtù del rapporto amicale con il proprietario e dei tanti eventi che vi organizzavo. Nel corso di una delle tante cene con amici diretti e indiretti mi fu presentato un personaggio – un militare: per privacy non riferisco di quale arma – con il quale nacque subito una forte empatia. Solo qualche settimana dopo il nostro primo incontro mi rivelò che non ci eravamo conosciuti per caso e che gli ero stato “segnalato” da un amico comune, del quale ovviamente mi fece il nome. Fu in quella circostanza che mi rivelò il perché del suo interesse nei mei confronti. Era un convinto assertore dell’innocenza di Contrada – chissà: forse era stato un suo collaboratore: non me l’ha mai detto e se anche lo avesse fatto, ovviamente, ora scriverei comunque che non me lo ha mai detto – e sapeva che anch’io, in alcune circostanze, mi ero espresso in tal senso. Di me sapeva tutto: sapeva anche che quando prestavo servizio in Questura avevo sostenuto un colloquio per entrare nel Sisde e che i miei trascorsi politici avevano pesato negativamente ai fini dell’ammissione, nonostante il brillante esito del colloquio. Mi disse che voleva girare un film su Bruno Contrada e aveva pensato a me per scrivere la sceneggiatura, dirigerlo e ritagliarmi un ruolo come attore scegliendo il personaggio che più mi aggradava. Non male come progetto. Gli sorrisi e gli feci la classica domanda che sempre si pone a qualcuno che ti espone belle idee: “Un film costa e non poco. Chi lo produce?” Annuì per far comprendere che si aspettava la domanda e replicò con una frase che evidentemente aveva elaborato in precedenza. “Partiamo dal presupposto che nel film ci sarà un solo attore più o meno famoso e che non devi preoccuparti per le “location” ma solo per troupe, cast e tutto il resto. Quanto pensi ti serva per realizzare il film?” Gli dissi che non era semplice parlare di costi senza sviluppare un progetto articolato e che mi sembrava prematuro sparare cifre a casaccio. “Ti capisco – disse lui – allora te la dico io. Hai a disposizione un budget di centocinquantamila euro. Non sono tanti, ma in sala arrivano film che sono anche costati di meno. E tu ne sai qualcosa”. Pronunciò l’ultima parte della frase sorridendo, facendo intendere che alludeva “anche” a un mio amico, il compianto Ninì Grassia, con il quale avevo girato “Come Sinfonia”, bravissimo nel produrre film low-budget e dal quale avevo acquisito utili suggerimenti in tal senso. Ci accomiatammo concordando di vederci con metodica frequenza. Non nascondo il tumulto di quei giorni. Mi misi subito al lavoro per reperire quanto più materiale possibile. Altro “mi sarebbe stato consegnato da lui stesso, in seguito”. Il tumulto, però, durò poco. Dopo una settimana esatta, infatti, l’amico mi telefonò per dirmi che era tutto annullato.

“Come mai?” chiesi un po’ ingenuamente. “Ne parliamo da vicino. Torna al tuo lavoro e non pensarci più”. Fu l’ultima volta che parlai con lui e non l’ho più rivisto.
 Bruno Contrada ha ora ottantasei anni ed è un uomo stanco e malato. Non sono facilmente predisposto all’umana pietas nei confronti di coloro chi operano al servizio del male e il mio rigore esistenziale non fa sconti a nessuno. I presupposti di civiltà, però, impongono estrema cautela quando il dubbio è più forte di ogni evidenza e di evitare esternazioni non supportate da chiari elementi probanti. Questa regola l’ho sempre rispettata. Mi concedo ora un’eccezione, perché proprio non me la sento di non dare fiducia al mio intuito. Mi sono di conforto, altresì, l’immagine di quella bilancia che prepotente si forma nella mia mente, con il peso maggiore sul lato dell’innocenza, e l’immagine del vecchio poliziotto che vedete nella foto in alto e che, insieme a tante altre, proprio non trasmette la sensazione di essere al cospetto di un delinquente.

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