Mafia Capitale, così le intercettazioni smentiscono i pm su Carminati

20 Giu 2017 22:02 - di Paolo Lami

Mistificazione da parte dei pubblici ministeri. Insussistenza dei fatti così come sono stati presentati  dai rappresentanti dell’accusa. Sciatteria investigativa. Colorate metafore. Al processo cosiddetto Mafia Capitale va in scena, per il secondo giorno consecutivo, l’appassionata arringa del difensore di Massimo Carminati, l’avvocato Ippolita Naso.

Ironica e tagliente la giovane avvocatessa strapazza ripetutamente, davanti al padre, una vecchia volpe del Foro come Giosuè Bruno Naso, il pm Luca Tescaroli lasciato da solo, a guardia del bidone di benzina, dai colleghi Giuseppe Cascini e Paolo Ielo e dal procuratore capo Giuseppe Pignatone.

Mentre incalzano, una dopo l’altra, le precise contestazioni dell’avvocato Naso, sulla mancanza di prove, sugli accertamenti non svolti, sulle numerose difformità fra quanto inserito nella memoria dell’accusa e quanto emerso effettivamente in fase di indagine e durante il controesame in udienza, non ci si può non chiedere perché l’ufficio dell’accusa quasi rinunci a presidiare quello che ha sempre fatto capire di considerare – chissà se ancora oggi è così – il processo più importante mai fatto a Roma. Quello, appunto, che nella ricostruzione, certamente molto suggestiva e cinematografica, dei magistrati romani ipotizza, per la prima volta nella storia, una sorta di Cupola mafiosa romana – di cui i precedenti colleghi magistrati di piazzale Clodio, chissà perchè, non si sono mai accorti, che avrebbe spadroneggiato in lungo e in largo nella Capitale, condizionando appalti pubblici, corrompendo politici e funzionari, minacciando e intimidendo. O forse no, visto che i pm romani si sono inventati, per sostenere l’accusa, questa strana creatura giuridica polimorfa che si chiama nientemeno che “riserva di violenza“. Come dire: non c’è bisogno che la presunta organizzazione  mafiosa faccia realmente violenza o intimidisca in maniera plateale e diretta perché è già sufficiente che si palesi per incutere timori e riverenze da parte delle vittime. Poi si vedrà, udienza dopo udienza, di quali riverenze goda e quali timori susciti veramente la cosiddetta Mafia Capitale i cui presunti esponenti, per dire, sono costretti a questuare a destra e a manca, ad appellarsi ad ogni Santo e a minacciare, questa volta sì, di adire le vie legali, per ottenere il pagamento delle somme dovute dall’amministrazione per il lavoro svolto ma non pagate. Per non dire delle volte che finiscono, essi stessi, i presunti mafiosi, perfino truffati e cojonati, come si direbbe a Roma, da quelle che dovrebbero essere le loro molto presunte vittime, secondo la spettacolosa ricostruzione dei magistrati. Se questa è la mafia, beh, allora uno come Falcone davvero deve aver capito poco di mafia.
Ma andiamo con ordine.
Uno degli episodi che più ha suggestionato i magistrati romani è il tentativo di Massimo Carminati e del suo amico Riccardo Brugia, soprannominato con malìa, dal milieu giornalistico che ronza perennemente attorno alla Procura, lo “spaccapollici”, di acquistare o affittare un terreno sulla via Flaminia, vicino corso Francia, per metterci una pompa di benzina cosiddetta “bianca”, cioè non appartenente ai brand più conosciuti. Un business come un altro. Il caso vuole che un loro amico, il titolare del concessionario d’auto dal quale i due hanno acquistato e acquistano con regolarità tutte le loro auto mandandoci anche amici e parenti, tale Luigi Seccaroni, sia proprietario di un appezzamento di terreno proprio sulla Flaminia. Ed è propriolo stesso Seccaroni a dire a Brugia e a Carminati che ha un terreno che può fare al caso loro. I tre si conoscono da anni, vanno spesso a mangiare insieme, si sentono al telefono con regolarità, si vedono altrettanto spesso. E la Procura di Roma questo lo sa bene perché produce paginate e paginate di intercettazioni in cui si sentono i tre chiacchierare amabilmente. Il più delle volte, per la verità, è lo stesso Luigi Seccaroni che contatta Brugia o Carminati, spesso invitandoli a pranzo.

Il legale di Carminati parla per ore, in udienza, leggendo, una dopo l’altra, le numerose e inequivocabili intercettazioni presentate dalla Procura da cui si evince del rapporto di amicizia che si è consolidato fra i tre. Seccaroni, che in quel periodo è fortemente depresso – e lo dirà anche in udienza, durante il controesame – spiega, intercettato, che ha problemi in famiglia, che ha una sorta di padre-padrone che lo maltratta, che gli da una specie di paghetta da 50 euro al giorno per lavorare nel concessionario, che in qualche maniera lo sfrutta, che gli preferisce il fratello il quale, invece, se ne va in viaggio in Spagna e non sta a bastone in concessionaria.

Insomma Luigi Seccaroni fa capire agli amici con cui si sente ripetutamente al telefono di essere una specie di moderna Cenerentola, vessato, poco considerato. E questo gli procura perfino problemi psicologici. Perdipiù, come se non bastasse, si trova anche senza soldi, il conto gli viene bloccato, si lamenta che gli sono rimasti “solo” 10.000 euro. Al telefono è una specie di cane bastonato. Nelle molte telefonate con Brugia e Carminati chiede loro di andare a pranzo insieme: “Vi faccio fa le fettuccine”, si intenerisce, a un certo punto sperando di allettare i suoi due amici per pranzare insieme.
Al telefono a Brugia, raccontandogli quello che gli fa il padre, dice: “sono una merda, sono un coglione, sono senza dignità”.
In questo contesto propone a Brugia e Carminati il suo terreno per installarci una pompa di benzina.
Poi sottopone ai due anche un’altra possibilità, un altro terreno, sempre su via Flaminia, sempre a ridosso di Corso Francia, di proprietà di un certo Paolo Contatore, uno che sia Brugia che Carminati conoscono di persona. Seccaroni combina perfino l’incontro e una volta che è con Contatore chiama i due. Ma la cosa non va in porto.

Quanto al suo terreno, Seccaroni tentenna, prende tempo, non da mai una risposta concreta. Continua a chiamare i due per vedersi, per mangiare insieme. Ma sul terreno  non si decide mai. Accampa scuse ma non dice un “no” che chiuda la questione.

La verità, quello che Seccaroni non ha il coraggio di dire, è che il “suo”terreno in realtà non è suo ma di suo padre. E non può, per i rapporti conflittuali e burrascosi che ha con il genitore, chiedergli di vendere o affittare il terreno a Brugia e Carminati. Non sa come uscire dalla situazione. Ne parla con altri, al telefono. Dice di essere sotto pressione dei due. Ma, poi, le intercettazioni della Procura rivelano tutt’altro. Rivelano, appunto, che è lui a cercare, in realtà, più e più volte, Brugia e Carminati, a insistere perché si vedano. E’ un continuo. L’avvocato Ippolita Naso legge, in udienza, una dopo l’altra le intercettazioni che dicono l’esatto contrario di ciò che sostiene la Procura. Altroché minacce.
A un certo punto, estenuato dal tira e molla, dall’indecisione di Seccaroni, di andare a parlare con il padre per concludere l’affare del terreno, Carminati si offende e non risponde più al telefono a Seccaroni. Il quale ci resta male, cerca una sponda con Brugia per ricucire il rapporto con quello che, secondo i magistrati, sarebbe, invece, il suo persecutore.

In un’interccettazione si sente Brugia chiedere a Seccaroni di trovargli e di vendergli alcuni pezzi per la sua auto. Brugia ha in testa solo questo, si addentra nei particolari del pezzo meccanico, Seccaroni, invece, torna sempre sul punto, su Carminati che fa l’offeso e non gli risponde al telefono, quasi supplicando Brugia di aiutarlo a ricucire con l’amico. Un po’ difficile sostenere che Carminati e Brugia minacciano Seccaroni. Eppure è quello che fa la Procura. E non è certo l’unica incongruenza.

Addirittura i magistrati romani arrivano a sostenere che, un giorno, Carminati si presenta da Seccaroni in via Due Ponti a minacciarlo. I pm lo scrivono con tale sicurezza che sarebbe persino facile credegli. Senonché l’avvocato Naso fa le controindagini e scopre che, proprio quel giorno Carminati è da tutt’altra parte della città, in via Pomona, dove ha sede la cooperativa di Buzzi. Dall’altra parte della Capitale. Lo certificano le intercettazioni del Ros. Ma queste intercettazioni vengono ignorate dai pm.

I pm romani scrivono che un certo Fabio Costa, del quartiere Vigna Clara, “conoscendo i due vorrebbe cambiare quartiere”. Anche qui le intercettazioni dicono tutt’altro. La vera ragione per cui Costa se ne vuole andare via da Vigna Clara e andare ad abitare all’Eur è “perché qui – dice intercettato – sono tutti falsi, sono tutti chiacchieroni”. Nessuna minaccia da parte di Carminati e Brugia.

 

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