“Noi” di Evgénij Zamjàtin come precursore dell’anti-totalitarismo

8 Mag 2017 12:57 - di Marco Picardi

Evgénij Zamjàtin è una delle figure apicali della letteratura russa contemporanea, ma anche una delle meno conosciute. Nato nel 1884 a Lebedjan’, un paesino a sud di Mosca, fu allevato, secondo la sua espressione, sotto il pianoforte, dal momento che la madre era appassionata musicista. Anche la scrittura dovette sembrargli una buona musica, tanto elevato fu per lui il discorso della forma. Gli studi di Ingegneria a Pietroburgo, con specializzazione in costruzioni navali, non significarono per Zamjàtin un abbandono dell’originaria passione per la letteratura. Anzi, col tempo, così come in Čechov la letteratura vinse sulla professione di medico, così in Zamjàtin aveva vinto sull’attività d’ingegnere. Partecipò ai moti rivoluzionari del 1905 e pagò questa sua partecipazione con alcuni mesi di prigione e poi col confino. Riuscito ad entrare a Pietroburgo vi visse illegalmente fino al 1911, anno in cui fu nuovamente arrestato e confinato fino al 1913, allorché, solo grazie ad un’ampia amnistia, poté vivere finalmente libero nella capitale. Scoppiata la Grande Guerra, poté trasferirsi in Inghilterra per la progettazione di un rompighiaccio. Quando giunsero in Inghilterra le prime notizie che la rivoluzione in Russia stava deflagrando, egli non indugiò a lungo a rientrare in patria, dove sostenne spontaneamente i bolscevichi, come d’altronde già si era verificato nel 1905. Ma ben presto la forte delusione del comunismo lo priettò dalla parte dell’opposizione, accanto a Gor’kij, il quale sentì, ancor più precocemente del suo giovane amico, che il regime non realizzava la sua utopia rivoluzionaria, bensì era qualcosa di ineludibilmente tragico. L’influsso degli avvenimenti rivoluzionari erano connessi con l’idea del romanzo fantastico Noi, scritto fra il 1919 e il 1920, pubblicato per la prima volta nel 1924, tradotto in lingua inglese (in lingua originale giunse solo nel 1988!) e poi in francese nel 1928, divenendo una rimostranza e al tempo stesso una satira contro il totale asservimento della libertà della personalità. Da questo connotato, estrinsecatosi sin dai primi anni di vita del regime sovietico, vissuti e analizzati da un raffinato e appassionato intellettuale, è evidente il rapporto fra l’avventuroso viaggio interplanetario de l’Integrale, la nave spaziale del romanzo che ha lo scopo di esibire la conseguita felicità dei sudditi dello “Stato Unico” e di presentarla così alle civiltà extraterrestri, e i primi anni della dittatura rivoluzionaria. Scritto con uno stile agile e conciso, Zamjàtin rinuncia agli epiteti ornativi, ricorrendo concretamente a quelli figurativi; più che descrivere suggerisce, senza che mai i suoi personaggi giungano a soluzioni così come l’autore non indugia in commenti. Noi è un romanzo poiettato nel futuro ed è considerato dalla critica un capostipite del genere della utopia negativa, della distopia, cioè di una società caratterizzata da aspetti indesiderabili quali la violenza e l’ossessivo e onnipresente controllo statale. Il protagonista del romanzo non ha nemmeno un nome, ma soltanto una sigla, D-503 e la penosa storia della sua battaglia contro il dominatore, il calvo “Benefattore” dello “Stato Unico”, figura astrusa e priva di umanità, era un’invocazione ai diritti dell’individuo contro l’asfissiante interferenza dello Stato. Nell’opera il totalitarismo e il conformismo, caratteristici dell’Unione Sovietica, ma in generale di tutti i regimi totalitari, vengono portati agli estremi, dipingendo un’organizzazione statale che individua addirittura nel libero arbitrio la causa dell’infelicità e che pretende di controllare “matematicamente” le vite dei cittadini attraverso un sistema di efficienza e precisione industriale di tipo tayloristico. L’atteggiamento di ferma opposizione di Zamjàtin, gli fece guadagnare l’epiteto di “diavolo” della letteratura russa, fu la principale causa dell’avversione della critica ufficiale, al punto che per lui si crearono le premesse di un vero e proprio ostracismo. Da quale energia però fosse animato lo scrittore nel difendere la sua dignità e la reputazione di se stesso si seppe più tardi, quando, ottenuto per intercessione di Gor’kij (il patriarca della letteratura proletaria molto ascoltato da Stalin) il permesso di abbandonare la patria, egli rese noto la Lettera a Stalin del giugno 1931, con cui aveva chiesto appunto l’autorizzazione ad emigrare: “Un condannato alla massima pena, l’autore di questa lettera, si rivolge a Voi con preghiera di commutargli tale pena. Il mio nome, verosimilmente, vi è noto. Per me, come scrittore, è una condanna a morte la privazione della possibilità di scrivere e le circostanze sono tali che io non posso continuare il mio lavoro, perché nessuna creazione è concepibile, se si deve lavorare in un’atmosfera di sistematica e sempre più accanita caccia all’uomo. In nessun modo io intendo rappresentar me stesso come l’innocenza offesa. So che nei primi 3-4 anni dopo la rivoluzione, tra quanto io scrissi vi furono cose che potevano dar motivo di attacco. So che ho la non comoda abitudine di dire non ciò che in quel dato momento è vantaggioso ma quel che a me sembra la verità. In particolare io non ho mai nascosto il mio atteggiamento di fronte alla servilità, alla bassa adulazione e all’esagerazione di colori dei letterati d’oggi; ho ritenuto e continuo a ritenere che ciò umili egualmente lo scrittore e la rivoluzione”. Zamjatin, ancora, descriveva quel che era diventata per lui la pesante situazione dal 1929 a 1931: “Per annientare il diavolo è permessa, si capisce, qualsiasi alterazione della verità, e così il mio romanzo scritto nove anni prima, nel 1920, è stato presentato come la mia ultima opera. E’ stata organizzata una persecuzione quale non s’è mai avuta fino ad ora nella letteratura sovietica e che è stata notata perfino nella stampa straniera; è stata fatta ogni cosa per chiudermi qualsiasi possibilità di ulteriore lavoro”. Nel frattempo, dalla sua autobiografia pubblicata nel 1929, si legge, in risposta alla precisa accusa di aver pubblicato il romanzo all’estero, che egli si decise a dare le dimissioni in qualità di membro dell’Unione panrussa degli scrittori, dichiarando, di non poter e voler accettare il principio sancito dall’Unione che gli scrittori sovietici dovessero sottomettere il loro intelletto ai loro obblighi politici. L’incidente che portò alle dimissioni dall’Unione si verificò in seguito al fatto che, avendo egli accennato al romanzo in un articolo intitolato Sulla letteratura, la rivoluzione, l’entropia e le altre cose, aveva indotto la critica ufficiale a parlarne e a decretare l’isolamento per il “criminale” autore di esso. Quanto il più famoso George Orwell, un quarto di secolo dopo, sia stato influenzato nella forma e nella tematica dallo stile satirico ed esplicitamente anticomunista di Zamjàtin, lo si desume dal romanzo 1984. Pubblicato nel 1949, ma la bozza è del 1948, donde deriva il titolo, ottenuto appunto dall’inversione delle ultime due cifre, Orwell descrive la sua contemporaneità così come si era già delineata nei suoi aspetti più drammatici, avendo cioè dietro di sé l’esperienza di molti anni di totalitarismo comunista e nazista, mentre in Zamjàtin l’eccezionale valore risiede nel fatto che egli profeticamente prevedeva già nel 1920 quel che sarebbe stata la metamorfosi deteriore della Russia comunista. Per ultimo, nel saggio intitolato Il Domani, Zamiàtin, aprendo uno spiraglio di speranza sul miglioramento delle future sorti dell’umanità, dice: “Noi abbiamo già attraversata l’epoca della soffocazione delle masse; adesso viviamo l’epoca della soffocazione della personalità in nome delle masse; il domani ci porterà la liberazione della personalità in nome dell’uomo… L’unica arma degna dell’uomo, dell’uomo di domani, è la parola”. Se scrittore vi fu che pagò di persona la libertà del proprio pensiero, questi fu Evgénij Zamjàtin. Morì prematuramente a Parigi il 10 marzo del 1937 all’età di quaratntadue anni.

MARCO PICARDI è nato a Napoli nel 1983 città in cui vive. Laureatosi in Lettere e filosofia all’Università di Napoli Federico II, con specializzazione in Storia Moderna e Contemporanea, è giornalista pubblicista dal 2006, ha collaborato per diversi anni con il quotidiano partenopeo Roma e con varie riviste di politica e cultura.

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