Le tre patacche a Cinquestelle rifilate agli americani dallo “statista” Di Maio

3 Mag 2017 18:04 - di Marzio Dalla Casta

La nostra scuola è in crisi, ma anche quella americana non deve passarsela tanto bene se è costretta ad affidarsi a un Luigi Di Maio per rendersi conto di come (non) vanno le cose della politica in Italia. E, almeno a giudicare da un abstract (un sunto) del discorso che il grillino vicepresidente della Camera terrà alle 24 italiane all’Ash Center for Diplomatic Governance and Innovation di Harvard, è difficile dedurne che alla fine ci avranno capito qualcosa. La colpa non è di Di Maio, ma di chi non gli ha spiegato che, almeno in occasioni come queste, propaganda e politica si tengono a distanza di sicurezza. Niente voli pindarici, niente slogan a raffica, ma concretezza, realismo e fattibilità delle soluzioni prospettate.

Di Maio atteso ad Harvard

L’esatto contrario di quanto evidenziato dall‘abstract di Di Maio. La prima “perla” del Gigino a Cinquestelle riguarda il futuro governo italiano. Un governo che Di Maio prenota direttamente dagli Usa dall’alto dell’«oltre il 30 per cento del consenso» che si è già accreditato: «A luglio – è l’annuncio che darà alla mezzanotte italiana – , sarà pronto il programma condiviso di governo. In settembre, eleggeremo il candidato premier e identificheremo i ministri che saranno presentati ai cittadini italiani prima delle elezioni politiche. Nel 2018 l’Italia potrebbe avere il primo governo fondato sulla democrazia diretta». Peccato che abbia scordato che in Italia governa chi otterrà voti dal 40 per cento in su o chi farà alleanze con altri partiti. Poiché è difficile che il M5S raggiunga quella percentuale ed è praticamente escluso (da essi stessi) che stipuleranno intese con altre forze, il «primo governo fondato sulla democrazia diretta» è destinato a restare pura fantasia. La seconda “perla” attiene, invece, alla capacità tutta grillina di intessere relazioni internazionali.

Alleanze, politica estera ed euro i punti deboli del M5S

Ne avemmo già testimonianza in occasione del passaggio con retromarcia incorporata dall’alleanza con gli anti-Ue dell’Ukip guidati da Nigel Farage a quella con l’Alde, cioè il gruppo più europeista di Strasburgo. Un figuraccia in eurovisione che ha fatto ridere mezzo mondo. Però è stata salutare: da allora nessuno azzarda più a prefigurare intese o patti futuri. Neppure Di Maio, che  ha letteralmente scagliato la palla in corner pur di non chiarire chi, tra Macron e la Le Pen, preferisse veder trionfare al ballottaggio di domenica prossima. Ecco il suo pensiero: «Il M5S non ha mai espresso preferenze durante il primo turno e non lo ha fatto e non lo farà neanche in questa occasione. Il motivo sta nel fatto che siamo una forza politica post ideologica che guarda ai fatti e non agli schieramenti. Il prossimo presidente francese sarà il nostro interlocutore». Chiaro no? Ma la vera chicca sta nell’annuncio del referendum sulla permanenza dell’Italia nell’euro. Peccato che la nostra Costituzione lo vieti espressamente. Bello e impossibile, insomma. Proprio come Gigino Di Maio statista.

 

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