La dissacrazione del Mito, la storia bugiarda e il polpettone su Re Artù

15 Mag 2017 13:47 - di Lino Lavorgna

E’ arrivato nelle sale cinematografiche “King Arthur – Il potere della spada”, ennesimo polpettone sulla figura di Re Artù e della mitica spada Excalibur, diretto dall’ex marito della cantante Madonna, Guy Ritchie.

Prologo. Il primo impatto con la spada di Re Artù lo ebbi all’età di cinque anni. In quel periodo la mia dimora era frequentata da amici di Papà, appartenenti all’ex Corpo Forestale dello Stato. Un giorno ricevemmo un bellissimo regalo (scrivo questo dato perché oramai sono trascorsi circa sessanta anni e non vi è rischio che possano essere puniti per il loro gesto di generosità): due spade, una romana e l’altra cartaginese, rinvenute alle pendici del Monte Erbano, teatro delle scaramucce tra Annibale e Fabio Massimo nel corso della seconda guerra punica. Si può ben immaginare come quelle spade mi facessero volare con la fantasia e il dolore che provai quando furono rubate, forse non proprio da “ladri professionisti”, ma da persone che avevano libero accesso a casa: parliamo di anni in cui non si sprangavano le porte e i furti nelle abitazioni erano molto rari. Papà Lorenzo ne acquistò una di plastica, che iniziava a essere massicciamente utilizzata in vari settori produttivi, e me la regalò cercando di lenire il mio dispiacere: “Vedi, questa è ancora più bella delle altre e in più ha poteri magici: si chiama Excalibur ed è la spada di un Re”. Le sue parole, purtroppo, servirono a poco: la spada proprio non poteva reggere il confronto con quelle vere, forgiate ventidue secoli prima. Il riferimento ai poteri magici, tuttavia, qualche effetto produsse, incuneandosi agevolmente in una mente già predisposta a ricevere particolari suggestioni. Gli anni trascorsero veloci e quel giocattolo, ben presto, finì tra i rifiuti alla pari di tanti altri. Non ciò che rappresentava, però. Intorno ai dieci anni, grazie a Mamma Giuseppina, maestra elementare e responsabile di un centro di lettura ubicato proprio nella nostra abitazione, scoprii, sia pure solo favolisticamente, “I cavalieri della Tavola Rotonda”. (1) Iniziai, così, quel meraviglioso viaggio tra i sentieri di Camelot e del Ciclo Bretone, che continua ancora oggi. Le gesta dei cavalieri generavano emozioni indescrivibili e fremiti culturali che mi spingevano ad approfondire spasmodicamente la materia. Lancillotto, manco a dirlo, fu il primo che mi sedusse, inducendomi a creare il teorema che ancora oggi risulta scandaloso per molti, circa l’impossibilità di concepire la fedeltà in amore un valore assoluto: “Quando arriva un cavaliere della tavola rotonda – affermavo con un sorriso che rivelava molto più di quanto non esprimessi verbalmente – non vi è donna che possa resistere, anche se moglie di un re”. (Fu fonte d’infinita gioia, qualche anno dopo, apprendere che il mio teorema era stato preceduto da analoghe riflessioni di Friedrich Nietzsche e Albert Einstein). La scoperta di Parsifal, poi, mi consentì quella “immedesimazione” che è ben nota a chiunque sia appassionato di letteratura. Non a caso è proprio il suo nome che ho scelto per il protagonista del romanzo “Prigioniero del Sogno”. Se Parsifal e Lancillotto si sono imposti come i cavalieri delle “affinità elettive”, Gawain (Galvano), nipote di Re Artù, è colui che, dal 1972, ossia da quando ho iniziato l’attività giornalistica, rappresenta il mio “avatar”, grazie all’assonanza del suo nome con l’anagramma del mio cognome: “Galvanor”. Ecco la genesi di “Galvanor da Camelot”, pseudonimo con il quale ho firmato tanti articoli.

La storia bugiarda

La locuzione latina “Historia magistra vitae” viene assimilata da quasi tutti gli esseri umani sin dalla più tenera età, trasformandosi in un assioma da riproporre ogni volta che qualche occasione lo consenta. Mi ha fatto sempre sorridere questa frase, sistematicamente smentita dalla realtà, alla quale sopravvive con una forza pari a quella dei virus per i quali non esiste antidoto. Diventa sconcertante, poi, se espressa nella formula integrale, concepita da Cicerone e inserita nel “De Oratore”: “Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis”. La storia, in effetti, eccezion fatta per i pochi eletti capaci di decantarla dall’enorme mole di manipolazioni strumentali, non è testimone dei tempi, non è luce della verità, non è vita della memoria, non è maestra di vita e solo parzialmente è messaggera dell’antichità. La storia dell’umanità, in qualsiasi epoca, è “sporca”, perché l’essere umano, ancorché a parole anelante al bene, nei fatti è portato a compiere immani scelleratezze per le sue smodate ambizioni. Non mancano le eccezioni, ovviamente, ed è giusto rimarcarlo: in ogni epoca vi sono stati personaggi che hanno rappresentato l’eccezione alla regola, sia pure in numero davvero esiguo. L’ho già scritto in passato da qualche parte, ma l’episodio merita di essere ribadito: molti anni fa suggerivo ad alcuni allievi di non fidarsi ciecamente della storiografia ufficiale, di effettuare opportune comparazioni tra più testi, di “ragionare” autonomamente, di provare a discernere il grano dal loglio e non avere remore nel confutare anche fatti legittimati da storici autorevoli. A titolo di esempio parlai dell’epopea romana, dagli albori alla caduta di Romolo Augustolo, sforzandomi di far comprendere che non era tutto oro quello che ci avevano spacciato nelle aule scolastiche. Citai numerosi aneddoti, tra i quali spiccavano il paradosso di Costantino e i due triumvirati, questi ultimi comparati a quello tra Craxi, Andreotti e Forlani, per far comprendere la natura non propriamente etica di azioni ciclicamente riscontrabili in ogni epoca.(2) A quel punto un giovane esclamò testualmente: “Ma in 1221 anni di storia vi sarà stato pure qualcuno che si sia distinto per un comportamento ineccepibile!” Mi sentii gelare il sangue nelle vene mentre mi rendevo conto che gli unici nomi balzati d’imperio alla mente furono Tiberio e Caio Gracco, pur nella consapevolezza che riflettendo con calma avrei senz’altro individuato altri personaggi meritevoli di buona considerazione.

La sacralità del Mito

Il mito è importante nella formazione di un individuo proprio perché sopperisce alle carenze della storia. Esso infonde una spinta ideale verso il bene in quanto si nutre di elementi leggendari che lo rendono spurio delle contaminazioni negative afferenti alla realtà ed esaltano i simboli, ossia le “proteine” della coscienza. “Il simbolo desta un presagio, mentre la lingua può solo spiegare. Il simbolo fa vibrare le corde dello spirito tutte insieme, mentre la mente è costretta a darsi a un singolo pensiero per volta. Il simbolo spinge le sue radici fino alle più segrete profondità dell’anima, mentre la lingua giunge a sfiorare, come un lieve alito di vento, la superficie dell’intelletto: quello è orientato verso l’interno, questa verso l’esterno. Solo al simbolo riesce di raccogliere nella sintesi di una impressione unitaria gli elementi più diversi. Le parole fanno finito l’infinito, i simboli conducono invece lo spirito di là delle frontiere del mondo finito e diveniente, verso il mondo infinito e reale”. Il magistrale concetto, concepito da uno dei più grandi studiosi di mito e simboli, Johann Jakob Bachofen, sembra quasi fare il verso a ciò che sosteneva l’imperatore Flavio Claudio Giuliano, ben quindici secoli prima, nel colleroso discorso contro il cinico Eraclio, filosofastro da strapazzo cui attribuì l’epiteto di “cane farneticante”: “Ciò che nei miti si presenta inverosimile, è proprio quel che ci apre la vita alla verità. Infatti, quanto più paradossale e straordinario è l’enigma, tanto più appare ammonirci a non affidarci alla nuda parola, ma ad affaticarci intorno alla verità riposta”. (3) Concetti che trovano ulteriori e autorevoli consacrazioni tra studiosi appartenenti a scuole di pensiero antitetiche, quali Ludwig Klages, Alfred Baeumler, Julius Evola, René Guenon, Karl Marx, Friedrich Engels, Erich Neumann, Wilhelm Reich, Erich Fromm, nonché in ambito psicoanalitico, a cominciare da Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. In epoca moderna risultano pregevoli i lavori del compianto Adriano Romualdi e di Claudio Risé. (4) Senza alcuna pretesa di comparazione a nomi tanto prestigiosi, poi, mi fa piacere riferire il mio modesto contributo alla materia, mai venuto meno nell’incedere lungo i sentieri della vita.(5) La riflessione di Bachofen, tra l’altro, troneggia nella pagina del sito “europanazione.eu” dedicata all’illustrazione del simbolo. Il ciclo Bretone, alla pari dell’opera di Tolkien, offre all’animo umano quanto di meglio si possa desiderare per arricchirsi idealmente e fortificarsi. Il mondo sarebbe senz’altro migliore se sin dalla più tenera età le future generazioni fossero indotte allo studio di questa importante fetta di letteratura, corroborata dai numerosi saggi, al fine di meglio comprendere la vera natura dell’uomo e orientarlo al bene.

La dissacrazione del Mito, una moda insulsa

Esiste senz’altro una vocazione dissacratoria di matrice ideologica, che persegue scopi ben precisi e affonda le radici nel razionalismo illuminista, mutuata poi in varie correnti di pensiero confluite nell’illusione del materialismo storico, pre e post 1968. Siffatta strutturata attività mistificatoria, tuttavia, ancorché praticata da personaggi capaci di esercitare un forte potere condizionante a livello culturale e artistico, ha prodotto danni minori rispetto a quelli, devastanti, provocati dalla naturale mutevolezza dei tempi, in particolare nell’ultimo trentennio, che ha visto il trionfo dell’edonismo più marcato, il continuo e crescente rifiuto della “conoscenza” di ciò che afferisce al passato, la trasvalutazione di tutti i valori, il decadimento del gusto (e conseguente affermazione del cattivo gusto), una insostenibile leggerezza dell’essere protesa alla massima semplificazione. Tutti elementi che hanno generato una sostanziale e diffusa ignoranza, a sua volta principale causa di non volute mistificazioni e proprio per questo più pericolose di quelle “volute”. E’ facile, per esempio, confutare la famosa frase di Bertolt Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi” e spiegarne le distonie. (Absit iniuria verbis, ovviamente, nei confronti di un insigne personaggio, che per altri versi merita il massimo rispetto). Altrettanto facile, soprattutto oggi, “smitizzare” le saccenti teorie della scuola di Francoforte e tacitare i pochi epigoni che testardamente ancora a essa guardano con patetica enfasi. Il regista francese Luc Besson, per meri motivi ideologici, ha “volutamente” dissacrato il mito dei cavalieri della tavola rotonda nel film “Lancelot du Lac”; anche in questo caso non è difficile spiegarne le ragioni recondite, in linea con la sua particolare visione del mondo. Molto più complicato, invece, far comprendere il danno provocato da film come quello in programmazione, o dall’altro che lo ha preceduto, King Arthur, diretto dal bravissimo regista Antoine Fuqua, che tra l’altro è anche un bel film. Non vi era certo volontà mistificatoria in Fuqua, ma solo una mancanza di cognizione sull’intricata materia. Analoga ignoranza ha indotto Guy Ritchie a girare un insulso polpettone, che a quanto pare è solo l’inizio di una serie che dovrebbe comprendere sei film, assicurandogli lauti guadagni. Non si può crocifiggere Fuqua, ovviamente, grandissimo regista, e non si può nemmeno crocifiggere Ritchie, che per quanto mediocre regista, ha tutto il diritto di fare i film che vuole, tanto più se dispone di una nutrita corte di fan, come dimostrano i due precedenti polpettoni su Sherlok Holmes. La dissacrazione del mito, tra l’altro, non riguarda solo il cinema e lo stesso filone letterario dedicato al ciclo Bretone è stato saccheggiato da pseudo scrittori, diventati ricchissimi e famosi in breve tempo. Che possiamo fare? E’ inutile illudersi: poco o punto. Salvo scrivere articoli come questo e sperare che almeno qualcuno apra gli occhi, ricordandogli che cibarsi di “mito” e magari contribuire a limitarne la dissacrazione, consente di elevarsi verso vette che assicurano una vista privilegiata sul mondo e sulle vicende umane. E’ senz’altro un’impresa faticosa, ma foriera di grandi gioie. L’autore di questo articolo, per esempio, ha mangiato pane e mito sin da quando indossava i pantaloni corti, sforzandosi sempre di mutuare nella “realtà quotidiana” gli insegnamenti appresi. E’ sicuramente anche per questo che, agli albori della vecchiaia, uno dei suoi più cari amici gli ha potuto dedicare la frase che vale i sacrifici di una vita: “Ille est Pasquale, qui difficilius ab honestate quam sol a cursu suo averti potest”. (6) Credetemi, una frase del genere non garantisce le laute prebende di cui è beneficiario chi scelga di navigare nelle paludi mefitiche oggi tanto di moda, nonostante lo facciano puzzare sempre di cacca, ma consente di passare dalla leggenda alla storia, suscitando una gioia indescrivibile per aver sempre percorso, e continuare a percorrere, i sentieri di un vero cavaliere della tavola rotonda, senza mai sbandare o cadere da cavallo.

1) Nella nostra casa era ubicata sia la scuola elementare nella quale insegnava mia madre sia il centro di lettura, che in quegli anni fungeva da supporto formativo per gli adulti con scarsa scolarizzazione.

2) Costantino, come noto, inventò la favoletta del segno divino per caricare le sue truppe in occasione della battaglia di Ponte Milvio, contro Massenzio, e tante generazioni di studenti hanno creduto che l’evento fosse vero, considerando “un grande imperatore”, nonostante non si fosse fatto scrupoli nel far uccidere il cognato Licinio, il figlio Crispo, il nipote Liciniano, la moglie Fausta. Il primo triumvirato avvenne nel 70 A.C. tra Cesare, Pompeo e Crasso; il secondo si ebbe nel 33 A.C. tra Antonio, Augusto e Lepido ed entrambi avevano intenti non propriamente orientati a una sana gestione del potere.

3) “Al cinico Eraclio”, Giuliano l’apostata – Editore “Congedo”, 2000. Importanti riferimenti anche nei saggi “Il mistero del Graal”, Julius Evola – Edizioni Mediterranee, 1972; “L’imperatore Giuliano – Realtà storica e rappresentazione”, Maria Carmen De Vita – Le Monnier Università, 2015.

4) Per Adriano Romualdi vedere innanzitutto “Nietzsche e la mitologia egualitaria”, Edizioni di Ar, 1971; “Sul problema d’una Tradizione Europea”, Ed. Tradizione, Palermo, 1973; “Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni”, Edizioni di Ar, 1978; “Drieu La Rochelle: il mito dell’Europa, (con Guido Giannettini e Mario Prisco), 1965, Edizioni del Solstizio; “Una cultura per l’Europa”, Ed. Settimo Sigillo, 1986. Di Claudio Risé consiglio tutta la pubblicistica, a partire dal testo fondamentale “Parsifal – l’iniziazione maschile all’amore”, Editrice La scuola, e i numerosi articoli reperibili nel suo sito www.claudio-rise.it

5) “Prigioniero del sogno”, Edizioni Albatros, 2015. Vedere anche in questo blog: “Tutti alla ricerca del Graal”; “King Arthur”.

6) Michele Falcone, presentazione del romanzo “Prigioniero del Sogno”, Caserta, 2015.

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