“Bolle di sapone” di Giovanni Antonucci: la dannazione dell’aforisma

15 Mag 2017 15:48 - di Rocco Familiari

Titolo quanto mai appropriato, di illustre ascendenza peraltro (Mario Praz, secondo la citazione posta in epigrafe dall’autore), per la raccolta di circa settecento “aforismi, proverbi, consigli, citazioni, battute, utili per la vita di ogni giorno”, come recita il sottotitolo, in centotrenta pagine – prediligendo perciò la concisione, la fulmineità addirittura, alla prolissità – di un bel volumetto, anche graficamente, edito dalla benemerita Pagine (che ha il coraggio, di questi tempi, non solo di tenere in vita una decina di riviste, fra cui una di poesia e una di teatro, ma anche di pubblicare libri destinati a lettori necessariamente privilegiati…).

Giovanni Antonucci, col suo stile consolidato, un mix di intelligenza vivacissima, cultura raffinata ed eleganza di tratto, ha preferito tenere un profilo basso, quasi a voler prendere le distanze dalla valanga di presunti “aforismi” che negli ultimi anni hanno invaso gli scaffali delle librerie. Secondo una tradizione per dir così classica, l’aforisma (dal greco aforismòs definizione) infatti deve, in poche parole (per Bufalino: un aforisma benfatto sta tutto in otto parole) racchiudere una “massima”, mentre in questa epoca di sbracamento generale, la maggior parte di quelli che vengono gabellati come tali contengono, il più delle volte in troppe parole, una “minima” (e pure questo potrebbe passare per un aforisma…). Anche se poi i “Minima moralia” di Adorno tengono saldamente il campo. Ma in quel caso la voluta modestia è soltanto un’astuzia retorica.

Bisognerebbe tenere sempre a mente quanto affermava Kraus, il principe del genere – insieme con Oscar Wilde e, più indietro, La Rochefoucauld – “ora che abbiamo ottenuto la libertà di pensiero, occorrerebbe il pensiero”.

E’ questa la dannazione dell’aforisma, o presunto tale, che l’uno tira l’altro, irresistibilmente, come le famose ciliegie (di una volta…, oggi costano tanto, che il detto va preso alla lettera, nel senso che, al massimo, “una tira l’altra” e basta!).

L’aforisma è forse il genere letterario più antico. Per aforismi si esprimevano gli oracoli, i primi filosofi greci, celeberrimo il gnoti se autòn (conosci te stesso), al quale con sovrano cinismo Antonucci aggiunge una coda: “fossi matto!”, i medici, da Ippocrate a Galeno, alla scuola salernitana (che osava spingersi al limite del consentito: coitus medicina catharri), e così perfino il padreterno: in fondo cosa sono i dieci comandamenti se non degli aforismi… coattivi? E il figlio, a sua volta, si esprimeva per parabole, sorta di aforismi al cubo… Sotto questo profilo non fa eccezione il Corano con le Sure, peraltro spesso oscure e inquietanti, o il Talmud. Il Libro dei libri contiene addirittura una intera sezione di “Proverbi”, alcuni diventati slogan di successo, altri dimenticati, espressione tutti comunque del ristretto orizzonte culturale degli estensori.

Ma è anche il genere più moderno: i twitter sono, o vorrebbero essere, degli aforismi. Il problema è che i 140 caratteri che si scambiano ogni nanosecondo miliardi di utenti in

tutto l’universo, per la massima parte non contengono pensieri, riflessioni, ma borborigmi verbali…, meri vagiti. Come asserisce Antonucci, “Tweetto ergo sum”…

Per restare su un cotè elevato, aforismi, sublimi, sono i “Pensieri” di Pascal e molti dei “Saggi” di Montaigne”; Schopenhauer, Nietzsche, il “zibaldoniano” Leopardi, fra i massimi pensatori di ogni tempo, si sono espressi al meglio anche per aforismi (filosofici, pour cause). Come peraltro, in epoca a noi prossima, il Ludwig Wittgenstein autore di quella celebre “settima proposizione elementare” del suo Tractatus logico-philosophicus, più citata che compresa: “di ciò di cui non si può parlare bisogna tacere”.

Scendendo, non di livello, anche se certe vette sono irraggiungibili, ma temporalmente, aforismi sono le “fosforescenze”di Boine (affini, per levità alle “Bolle di sapone”…) o le “Scorciatoie” di Saba, i “Fuochi fatui” di Sbarbaro, le “Schegge” di Papini, fino agli “Errori” di Flaiano, che sembra nel titolo voler adombrare la famosa tesi di Popper che la verità è un errore ancora non conosciuto (e anche questo è un aforisma…), tesi che riecheggia nelle definizioni di aforisma di Papini: “una verità detta in poche parole, epperò in modo tale da stupire più di una menzogna” e di Kraus: “l’aforisma non coincide mai con la verità, o è una mezza verità, o è una verità e mezza”, per arrivare alla “teoria generale” di quel mostro di erudizione che fu Umberto Eco il quale coniò addirittura l’aforisma “cancrizzante”, contenente cioè un significato plausibile sia in una versione data sia in quella opposta, vale a dire l’interscambiabilità fra verità e menzogna. Eco ha mutuato termine e concetto dalla musica, dove il canone retrogrado, o cancrizzante appunto, rovescia il tema, come nell’esempio forse più celebre della letteratura musicale, la composizione di Guillaume de Machaut, sicuramente nota al fine musicofilo Antonucci: “Ma fin est mon commencement et mon commencement est ma fin”, tema ripreso dall’ Ecclesiaste: “quello che è stato è lo stesso che sarà”, e trasmesso poi in un certo senso all’Eliot dei Quattro Quartetti: “In my end is my beginning, in my beginning is my end”.

L’aforisma è una forma talmente in sintonia col nostro sistema percettivo che tutti noi, quando leggiamo un articolo, un saggio o anche un romanzo, cerchiamo avidamente di carpire l’essenza del contenuto attraverso una frase-chiave, un aforisma appunto. Un esempio sommo per tutti: de “L’Idiota” di Dostoevskij, la maggior parte di chi lo ha letto (o anche no…) cita l’affermazione che “la bellezza salverà il mondo”, bellissima frase, di enorme suggestione, salvo il piccolo dettaglio che non esiste…, nel senso che il principe Mischkin, l’idiota del titolo, non l’ha mai pronunciata: gli viene rivolta per due volte, nel corso del racconto, la domanda se la bellezza potrà salvare il mondo, ma egli, e perciò Dostoevskij, non risponde mai.

Antonucci non ha diviso le sue “Bolle” per argomenti, lasciando così il lettore libero di crearsi una propria griglia tematica, focalizzando l’attenzione per esempio su quelle dedicate alla stupidità (a cui sarebbe da aggiungere almeno una celebre battuta-aforisma di W. Allen: ”il vantaggio dell’uomo intelligente sullo stupido è che il primo può fingere di essere stupido, il secondo non può fingere di essere intelligente”) o su quelle dedicate al teatro, o alla politica.

Antonucci è dissacrante, cinico, disincantato, capace di rovesciare luoghi comuni o di illuminare improvvisamente di una luce diversa verità che si credevano acquisite una volta per sempre in una data forma.

E’ spinto da una curiosità intellettuale insaziabile, forse la caratteristica dominante della sua personalità, capace di cogliere spunti dovunque, dai molti libri letti “la paura è la cosa di cui ho più paura” (da Montaigne) come dai muri di Roma: “Il popolo non vota, fotte” (che può anche essere un avvertimento ai competitor delle nostre prossime elezioni…). Uno scrittore che Antonucci ammira molto è Flaiano. Riprendendo un aforisma nel quale l’autore di “Un marziano a Roma” affermava che la nostra è una letteratura di giornalisti, Antonucci aggiunge “veline, cantanti, attori, pubblicitari, ex terroristi”. E direi che ha dimenticato i sarti, i calzolai e i cuochi… Antonucci rincara la dose: “La nostra è nell’arte e nella letteratura l’epoca delle citazioni e delle imitazioni, non delle invenzioni”; e ancora: “I libri oggi non si leggono, si vedono al cinema o in TV”.

L’incipit è folgorante, e capzioso: “chi ha una certezza, me la spieghi.” Alzi la mano, non chi ha una certezza, immagino siano in tanti, ma, e qui sta la malizia dell’autore, chi è in grado di spiegarla… E, a seguire: “La carne è debole, l’anima anche”, sublime esempio della collaudata attitudine a rovesciare i luoghi comuni; così come: “chi dorme si riposa”, o “chi va piano arriva sempre tardi”, “chi troppo vuole qualcosa ottiene”, “chi si contenta poi schiatta”. O “Domani è sempre lo stesso giorno”: Come dire: Pirrone versus Rossella O’Hara… Vince lo scettico Pirrone.

Ma, se qui siamo ancora su un versante per così dire leggero, del calembour, sempre intelligente peraltro, ecco che subito dopo la capacità di rifare il verso alle frasi fatte apre spaziosi orizzonti di pensiero.

“Nessuno tocchi Caino. Abele invece sì” fa giustizia di certo buonismo a buon mercato, sul quale Antonucci ha da dire la sua: “il buonismo è il contrario della compassione”.

“Dio è morto, Maometto no”, dice molto più di un ponderoso saggio, sulla irresistibile tendenza dell’Occidente a castrarsi, vedi la bocciatura alla proposta di inserire nella Carta Costituzionale europea il richiamo alle radici cristiane dell’Europa, che non era espressione di bigottismo, ma una orgogliosa rivendicazione culturale. E l’epitaffio di Antonucci è implacabile: “una civiltà che non crede più in se stessa è destinata a scomparire”.

Ancora: “La tragedia del nostro tempo è che lo stupido pensa.”

Ha il tono dell’Apocalisse di Giovanni! O, meglio, la gravitas solennemente iettatoria del già ricordato Ecclesiaste, soprattutto nella seicentesca traduzione del Diodati: “vi è tempo di nascere e tempo di morire”. “Non decidere è considerata una virtù”. E’ forse la migliore risposta alla vexata quaestio sulle cause dei ritardi del nostro paese, che “una volta era chiamata nazione”, afferma un’altra “Bolla” di Antonucci.

“La psicanalisi ha reso inquietante la normalità”. E con ciò, direi, sono serviti Freud and friends…

Personalmente ho una certa predilezione per le “Bolle” per così dire di carattere sociologico, tenendo anche presente che i sociologi sono quelli, come dice sempre Antonucci, “che capiscono in ritardo ciò che gli scrittori capiscono in anticipo”: “Una moglie

ideale. Per l’amante”. Oppure: “Una puttana sterile resta una puttana. Una puttana feconda diventa una madre esemplare.”

Possiamo tutti convenire che di queste “madri esemplari” ce ne devono essere tante, stando al numero di figli di puttana in circolazione…

“Il cielo può attendere, gli uomini no”. Riecheggia il Keynes il quale affermava che è inutile prendere provvedimenti per il lungo periodo, perché allora saremo tutti morti…

Un posto di rilievo lo occupano quelle che attengono al mondo dello spettacolo, nel quale Antonucci sguazza ovviamente a suo pieno agio: “Aspettando Godot. Ma se per caso arrivasse?” Quante volte ce lo siamo chiesti! “A teatro una volta recitavano i figli d’arte, oggi i figli di papà”. “Il cantante lirico P. è diventato un divo senza saper leggere uno spartito.” E’ facile dare un nome a quella P., ma la voce e la passione erano tali da perdonargli qualsiasi cosa, anche l’ignoranza dei rudimenti elementari. “Il volto spesso non è lo specchio dell’anima, ma la sua maschera”. Rievoca un pensiero di Coco Chanel alla quale vengono spesso attribuiti pensieri non suoi…, come quello sull’arte: “il 10% di ispirazione e il 90% di traspirazione”. In questo caso affermava che dopo i quarant’anni siamo tutti responsabili della nostra faccia, intendendo ovviamente che essa esprime il vissuto. Ma in giro, ritengo voglia dire Antonucci ci sono molti irresponsabili…

“Essere liberi è una condizione spirituale” e “La solitudine è di coloro che ne sono degni”, esprimono al meglio la dimensione intellettuale di Giovanni Antonucci.

Poichè io rispetto sempre le intenzioni degli autori, vorrei concludere con l’aforisma posto in chiusura del libro, che non è solo un pensiero di grande profondità, ma l’espressione puntuale, aforistica appunto nel senso pieno, della nobiltà d’animo di Antonucci. Credo infatti che egli abbia applicato la massima anche all’attività di critico militante, da qui, per dirla con Hoelderlin, la “quieta chiarezza” del suo sguardo: “un giudice non dovrebbe gioire nel condannare, neppure quando ha la certezza che l’imputato è sicuramente colpevole.”

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