Il 25 aprile “revisionista” di De Gregori: una data divisiva, storicizziamo

25 Apr 2017 10:27 - di Sandro Consolato

Nel suo recente, interessante libro-intervista realizzato per Laterza con Antonio Gnoli (Passo d’uomo, Laterza 2016), Francesco De Gregori racconta anche il suo rapporto con la storia contemporanea, e quindi anche con eventi come il fascismo e la Resistenza.

De Gregori, intanto, sarà bene precisarlo, ha fatto studi storici all’Università di Roma, seguendo anche i corsi di Renzo De Felice, il massimo storico italiano e non del fascismo, di cui così racconta: “Ciò che in età giovane appresi dalla lezione di De Felice fu un’interpretazione illuminante non solo del fascismo, ma anche la necessità di non appiattirmi sulla storia raccontata dai vincitori, su quella che lui chiamava la vulgata resistenziale. […] Prima di lui era politicamente molto scorretto dire che non tutti gli italiani furono antifascisti. Ci raccontarono che il Paese era stato un’immensa opposizione al regime. Ma dove? Ma quando?”. 

Senz’altro di sinistra, ma vittima anche lui stesso negli anni 70 dei soprusi dell’estremismo di quella parte, De Gregori fu autore di una canzone, “Le storie di ieri”  (album “Rimmel”, 1976), che allora qualcuno (mi pare Marco Lombardo Radice, il coautore di “Porci con le ali”, ma potrei ricordare male) definì “Il manifesto dell’antifascismo giovanile” (è la canzone de “i cavalli a Salò sono morti di noia” e de “i nuovi capi hanno facce serene e cravatte intonate alla camicia”), ma è anche l’autore, più tardi, de “Il cuoco di Salò” (in “Amore nel pomeriggio”, 2001), che gli portò l’accusa di “revisionismo”; accusa a cui rispose dicendo: “Sarei in ritardo di dieci anni… La verità semplice è che la storia, man mano che ci si allontana da quel periodo, la si legge più pacatamente, si possono recepire, senza più emozioni, le motivazioni di tutti. E in ogni caso una canzone narra una vicenda, non reinterpreta la storia”.

Fatto sta che quella canzone la ascoltò anche Cesco Giulio Baghino, presidente dell’Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana, il quale dichiarò di essersi molto commosso e che solo un vero artista poteva aver colto così bene un clima non direttamente vissuto.

Ma il personale vissuto di De Gregori, nato a Roma nel 1951  (“Il ricordo della guerra era recente, le ferite ancora aperte” si legge nell’intervista), è stato profondamente segnato dalle vicende  della Seconda guerra mondiale. Il cantautore porta il nome di un suo zio paterno, esponente della Resistenza non comunista, comandante col nome “Bolla” di quella Brigata Osoppo, cui pure apparteneva il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido, che vide proprio De Gregori, Pasolini e ben altri 15 componenti (tra cui una donna) della formazione combattente catturati con l’inganno e trucidati nel febbraio del 1945 nella malga friulana di Porzûs da un nutrito gruppo di partigiani comunisti italiani e filotitini al comando di Mario Toffanin (alias “Giacca”). Come è ormai noto, a questa vicenda è dedicata la versione degregoriana della canzone  “Stelutis alpinis” (in “Prendere e lasciare”, 1996).

Poco noto – personalmente lo leggo per la prima volta in “Passo d’uomo” – che un altro zio paterno di De Gregori, Luciano, aveva invece aderito alla Repubblica Sociale e che questi si recò persino a trovare il fratello Francesco a Porzus prima dell’eccidio, forse – spiega il cantautore – per il desiderio che “ripensasse a quella scelta resistenziale e tornasse sulle proprie convinzioni”. Se si pensa che invece il padre dell’artista, Giorgio, bibliotecario, rimase lontano dalla guerra civile, si ha anche l’interessante dato che la famiglia De Gregori rifletté tutta quella complessità di atteggiamenti del popolo italiano che lo stesso De Felice evidenziò, segnalando l’esistenza sostanzialmente, tra il 1943 e il 1945, di una lotta tra fascisti ed antifascisti con in mezzo una larga “zona grigia”.

Ma più significativo, più emblematico, è il dato – tale da rendere quanto mai vera l’immagine di quella del 1943-1945 come guerra “fratricida” – che in una stessa famiglia dei fratelli potessero scegliere campi opposti, perfino tra persone, come i De Gregori, segnati da una visione comunque patriottica e anticomunista.

E’ nel capitolo “Il tempo non è passato invano”, con cui si conclude “Passo d’uomo”, che De Gregori  affronta il tema della Resistenza e della tragedia di suo zio e dei suoi compagni. Ed è un capitolo particolarmente bello perché ci dà l’idea di una “cerca”, la cerca della verità e anche della riabilitazione della memoria e della giustizia ancorché postuma, che un nipote nato nel 1951 ha compiuto quasi per capire anche il senso stesso del portare il nome dello zio ucciso nella guerra civile. Nella sua “cerca” De Gregori racconta di aver voluto incontrare Giorgio Bocca, partigiano azionista e poi storico della Resistenza. Voleva capire perché nella sua celebre “Storia dell’Italia partigiana” avesse liquidato sbrigativamente la figura dello zio “Bolla” come “l’uomo sbagliato al posto sbagliato”.

Bocca, di cui viene ricordato “un lieve imbarazzo”,  gli disse che anche per lui le accuse di tradimento a quelli della Osoppo mosse dai comunisti erano infondate, ma sostanzialmente difese le circostanze in cui l’eccidio fu consumato. E De Gregori dice, parlandone a Gnoli, che ancora gli provoca “un forte disagio” l’opinione del famoso giornalista su suo zio. E poi, più grave, il ricordo del presidente Sandro Pertini negli anni in cui perdurava la congiura contro la verità e contro la giustizia: “Beh, ogni tanto accadevano cose che riportavano a galla il passato e a volte non era piacevole, come quando Sandro Pertini decise di concedere la grazia all’assassino di mio zio, latitante in Cecoslovacchia. Non è che mio padre volesse infierire, l’ultima cosa che poteva avere in mente era la  vendetta; ma la verità è che quell’individuo non aveva mai espresso una sola parola di pentimento. Anzi, aveva rilasciato delle interviste pubbliche che, nel clima di quegli anni, quella cosa andava fatta. Capisci? Forse Pertini quel giorno avrebbe fatto meglio a giocare a scopone, quel giorno, e a non occuparsi di giustizia”.

Non va dimenticato (anche se De Gregori non ne parla) che Pertini, la cui grazia al macellaio Toffanin /“Giacca” è uno dei primi atti pubblici dopo l’arrivo alla Presidenza della Repubblica, è colui che poi nel maggio del 1980 accorre ai funerali del maresciallo Tito baciando la bandiera jugoslava. E De Gregori afferma con chiara consapevolezza storica: “Trieste era stata liberata dai sovietici [intende evidentemente i titini, allora ancora legati all’URSS]; nel confuso calderone, dove si mescolavano ambizioni ideologiche e pretese geopolitiche, c’era anche chi, come mio zio, difendeva l’italianità di quelle terre contese; difendeva una visione della lotta partigiana che non era quella  auspicata e praticata da chi vedeva la Resistenza come un’anticipazione della rivoluzione comunista.” E ancora: “Nella Brigata Osoppo, che mio zio comandava, c’erano azionisti, monarchici, cattolici. Il filo che li legava era una forma chiara di anticomunismo. Ma dirsi anticomunisti significava automaticamente essere tacciati di fascismo. Fu uno stravolgimento del lessico politico, un’iniquità che è durata fino agli anni Sessanta” [troppo buono qui De Gregori con la categoria della temporalità].

De Gregori non vuole né rinnegare né infangare la Resistenza, ma si dichiara “convinto che la storia della Resistenza, al di là delle provenienze, sia stata monopolizzata dalla componente comunista. Che certamente è stata una parte importantissima, ma non l’unica”. Da qui l’esigenza di rivalorizzare il contributo di monarchici e cattolici, che volevano combattere fascismo salotino e nazismo, ma su posizioni non antinazionali, non rivoluzionarie.

Lo zio “Bolla” rappresenta dunque, agli occhi del nipote, tutta una storia negata, diventa un simbolo, orgogliosamente rivendicato: “Io credo che mio zio Francesco sia stato consapevolmente un eroe e col passare del tempo questa dimensione eroica della sua vita stia venendo sempre più fuori. Non era sicuramente un politico, come diceva Bocca. Ma questo me lo rende ancora più simpatico. […] Era sicuramente un uomo d’azione, un militare di carriera. Aveva combattuto in Spagna nel 1937 ‘dalla parte sbagliata’ e poi in Grecia, doveva aveva maturato una forte avversione per il fascismo che dopo l’8 settembre lo portò a schierarsi per la Resistenza. Cattolico, uomo d’armi e d’onore. Quel senso dell’onore che lo fece rimanere fedele al giuramento fatto al re anche quando la monarchia toccò il punto più basso della sua storia con la fuga di Brindisi. […] Ciò che so con sicurezza è che sono orgoglioso di ‘Bolla’, e fiero e felice di portare il suo nome”.

C’è qualcosa di “ottocentesco” (aggettivo che uso come un complimento, sia chiaro) in quel parlare di un ufficiale italiano “cattolico, uomo d’armi e d’onore”, un parlare che segna tutta la distanza che De Gregori stesso ha maturato verso le grandi contrapposizioni del Novecento. Che tutta la Storia, anche prenovecentesca, sia “divisiva”, De Gregori, che come ho detto ha solidi studi storici alle spalle, lo sa bene. Si pensi solo alla bella canzone “Vai in Africa, Celestino!” (in “Pezzi”, 2005), ai suoi versi “Pezzi di storia, pezzi di divisione / Pezzi di Resistenza, pezzi di Nazione / Pezzi di Casa Savoia, pezzi di Borbone”, in cui peraltro l’esigenza della rima rende alla Repubblica Sociale un omaggio di cui forse neanche l’Autore si è accorto, contrapponendo la Resistenza non al Fascismo ma alla Nazione, incarnata dalla “parte sbagliata” di cui nel “Cuoco di Salò”.

Ma De Gregori è pur sempre l’autore di “Viva l’Italia” (1979, la canzone dà anche il titolo all’album), è il grande artista nazionale che in una intervista del 2014 al “Venerdì” di “Repubblica” dice queste parole, per tanti anni impossibili da sentire da parte di chi apparteneva alla cultura di sinistra: “Non avrei timore di usare la parola patria. E’ l’appartenenza a un’identità che non abbiamo del tutto perso. E che dovrebbe segnare la continuità tra ieri e oggi”. E’, infine, il poeta civile che in “Passo d’uomo” lascia questo grande messaggio, di artista non di una parte ma di una Nazione, e che suona opportuno per questo come per ogni altro 25 aprile: “Si è a lungo usato il feticcio della guerra civile, del fascismo e dell’antifascismo per spaccarci, confliggere, insultarci su tutto. E’ l’anomalia del nostro Paese rispetto ad altri, che hanno avuto come noi la guerra, ma non hanno trascinato meccanicamente le divisioni del passato nella politica dell’oggi. Certe parole, come pure gli eventi che ad essi corrisposero, andrebbero storicizzate e restituite al contesto da cui provengono. Invece abbiamo fatto in modo che si protraessero fino ai nostri giorni”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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