Ue, vuoi vedere che alla fine all’Italia converrebbe uscire da questa Europa?

15 Feb 2017 15:15 - di Enea Franza

Si moltiplicano le voci di un possibile cambio di direzione dei popoli europei che, abbandonata l’illusione di poter contare su una unica moneta, chiedono almeno di poter uscire dall’Euro e tornare a contare su una valuta nazionale, se non addirittura di uscire dall’Unione europea, vista sempre più come soggetto lontano dai bisogni della gente e, in particolare, di coloro che non hanno capitali, ma debbono vivere col loro lavoro. In particolare, per l’Italia, solletica le menti, anche le più illuminate, la possibilità di sfruttare le svalutazioni competitive, che pur accendendo l’inflazione, sono, tuttavia, capaci di ridare slancio ai commerci. Non sono pochi gli economisti che, alla luce delle indubbie difficoltà di rilanciare il reddito e la produzione, ritengono auspicabile una simile strada. Peraltro, le conseguenze economiche della vittoria del fronte del leave, nel voto sulla Brexit, evidenti per ora solo sul mercato dei capitali, evidenziano solo una quotazione della sterlina, nei confronti dell’Euro, in svalutazione, con auspicabili conseguenti benefici in termini di export. Di certo hanno favorito la svalutazione della sterlina, le indecisioni in sede europea sui possibili approcci da tenere nei confronti del Regno Unito, a cui i Trattati danno due anni per completare il processo d’uscita e, le indecisioni sulle iniziative da prendere per un’eventuale accelerazione del processo di integrazione europea, soprattutto per una maggiore integrazione finanziaria e bancaria. Ma, per cercare di capirci qualche cosa in più, dobbiamo fare qualche considerazione iniziale. 

L’uscita di Londra costerà alle Ue il 17% del Pil

L’uscita del Regno Unito dall’Europa determina per l’ Ue una perdita secca del 17% del Pil e del 12% della sua popolazione. Un fatto apparentemente semplicemente contabile, che però ha un peso per l’Europa e nei rapporti con gli altri grandi concorrenti mondiali, Usa e Cina in primo luogo. In discussione, con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, ci sono la stabilità del commercio, del mercato, degli investimenti stranieri e dei mercati finanziari e cioè di libero mercato di merci, servizi, persone. Lo scopo di una area di libero scambio è, come noto, di ridurre (annullare, nel caso della Ue) le barriere allo scambio tanto da far crescere il commercio come risultato della specializzazione economica e della divisione del lavoro, rendendo possibile la pratica del vantaggio comparato. L’uscita di un grande Paese come la Francia, nel caso di vittoria nelle elezioni presidenziali della Le Pen, e dell’Italia, in caso di vincita elettorale dei movimenti non Euro, come la Lega di Salvini ed il movimento 5 Stelle, segnerebbe di fatto la fine della grande illusione europeista. Tuttavia, se dovessimo andare a ricercare in cosa effettivamente consista l’unione europea, si potrebbe, senza sbagliare troppo, definirla come una grande area di libero scambio. Alla base di tutta la retorica commerciale europeista sta in fondo, una vecchia ma sempre stimolante teoria economica, quella dei vantaggi comparati. Di che si stratta? In parole povere, in un mercato senza restrizioni (e in equilibrio) ogni di fonte di produzione tenderà a specializzarsi nell’attività in cui ha un vantaggio comparato rispetto alle altre. Il risultato netto della riduzione del reddito dovuto all’abbandono delle produzioni a minor valore aggiunto per quelle più redditizie, sarà un incremento del reddito, in quanto, comunque, il guadagno dei vincenti supera le perdite. Tale idea-cardine, applicata al commercio internazionale e, quindi, allo scambio di beni tra un Paese ed un altro, ha lo stupefacente risultato di dimostrare che tutti i paesi coinvolti nel commercio – anche con più produttività bassa in tutte le produzioni rispetto ai concorrenti – traggono vantaggio dal commercio. Infatti, la specializzazione in ciò in cui si è più bravi farà in modo che i Paese superiori abbandonino le produzioni dove il loro vantaggio comparato è minore e si focalizzino sui prodotti dove c’è più margine di profitto, lasciando ai concorrenti le altre produzioni con vantaggi comparati inferiori. Ne segue che ogni allontanamento dal libero scambio determina posizioni di second best, ovvero, in altri termini, è considerata inefficiente e dannosa per il sistema. A parte i legittimi dubbi che tale teoria economica genera, tuttavia, in pratica allo stato attuale essa è talmente condivisa che, di fatto è in grado di condizionare le aspettative degli investitori nel senso che l’uscita di un Paese membro di un’unione economica dovrebbe caricare perdite su tutti i partecipanti all’area di libero scambio. Cosi è stato per il voto sulla Brexit, dove la speculazione si è abbattuta sui Paesi più deboli della Unione Europea, in particolare sull’’Italia. Ma vediamo ora di rispondere alla principale questione che la scelta dei cittadini del Regno Unito, dimostrazione evidente della possibilità di uscire dall’Unione, ha reso attualissima; ovvero, cosa succederebbe se l’Italia decidesse di uscire dall’Euro? Per farlo adottiamo una drastica semplificazione. Supponiamo che la fase di transizione (sostituzione del circolante in euro con nuova moneta contante) avvenga miracolosamente in una sola notte e che il giorno successivo ci potessimo svegliare tutti con la nuova moneta nel portafoglio e con tutti i prezzi delle merci e servizi espressi nella nuova moneta. Ciò posto, la scienza economica ci da gli strumenti teorici per risolvere la questione.

L’uscita dalla Ue potrebbe alla fine favorirci

C’è da scommettere, in primo luogo, che nel breve periodo la nuova moneta sarà la prima vittima sacrificale sui mercati, a causa del probabile calo della fiducia delle imprese italiane (considerata la bassa produttività del nostro sistema industriale) e del maggior deficit delle partite correnti del Paese, per la necessità immediata di pagare le importazioni in valute internazionali quali l’Euro o il dollaro. La turbolenza futura preventivabile potrebbe, tuttavia, dare luogo ad opportunità di guadagno significative per gli speculatori e, per quegli investitori che seguono un approccio fondamentale ed ipotizzino che, un Paese come il nostro votato alle esportazioni possa effettivamente conquistare posizioni. Un’ulteriore impatto negativo, si avrebbe certamente sulla finanza pubblica. Ma qui è come sparare sulla croce rossa, atteso la necessità di dover finanziare un debito pubblico sempre in crescita. Poi, sinteticamente, c’è da prevedere, un’inflazione in salita, perché le importazioni saranno più care, e un aumento dei tassi di interesse, proprio per contrastare l’inflazione. Infine, si può ben condire il tutto con una facile previsione di una fuga dei capitali delle aziende, a meno investimenti e meno assunzioni di manodopera, ovvero, in breve ad una riduzione del Pil. Questo nel breve-brevissimo periodo. Tuttavia, un’analisi a medio lungo termine deve tenere in debito conto gli effetti della svalutazione della nuova moneta ed un aumento della produttività del settore manifatturiero che, tenuto conto che l’uscita dall’Unione dà alle imprese nazionali un potenziale di crescita in termini di minori costi di adeguamento alle normative europee che pesano e, non poco, sul sistema paese. E quindi possibile confidare in una maggiore penetrazione dei mercati italiani, che sarebbero liberi di imbastire relazioni commerciali con paesi che risultano attualmente bloccati dalle scelte di politica (vedi il caso della Russia). Sul fronte interno nel lungo periodo, l’inflazione certamente abbatterebbe i costi del lavoro, attivandosi come una tassa implicita a scapito di tutti i consumatori, ma dando nuovo ossigeno alle imprese. Anche sul fronte dei debiti, l’inflazione contribuirebbe ad abbattere il debito pregresso dei privati e pubblico. Ma, naturalmente, le previsioni a lungo periodo non sono semplici e gli sviluppo e le contro iniziative degli ex partner potrebbero giocare un ruolo importante e con sviluppi imprevedibili. Insomma, come diceva Keynes, “… nel medio-lungo periodo siamo tutti morti”, segno certamente di una sfiducia nei programmi a lunga scadenza ma anche, in fondo, il limite vero delle analisi di quell’economista.

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