Castro, il “nazionalista” che abbracciò il comunismo in odio all’America

26 Nov 2016 12:28 - di Lando Chiarini

Fidel Castro è morto. Da questo momento, chi oggi ha un’età compresa tra i cinquanta e i sessant’anni è ufficialmente vecchio. A prescindere dalla fede e dai convincimenti politici di ciascuno, la scomparsa il dittatore cubano archivia definitivamente la Guerra Fredda e, con questa, la vulgata del ‘900 come “secolo breve”. Con lui, infatti, se ne vanno l’utopia di un comunismo caraibico a poche miglia dalla Florida, il ricordo del fallito blitz statunitense alla Baia dei Porci, l’appello disperato di Giovanni XXIII alle superpotenze americana e sovietica a non trascinare il mondo nella Terza guerra mondiale per il controllo dell’Isola. Accadeva agli inizi degli anni ’60, un decennio che sarebbe stato chiuso dal vento impetuoso del ’68 con annesso mito castrista e “guevarista”. Nei sogni dei rampolli della borghesia afflosciata dal boom economico, Fidel e il “Che” diventarono presto i simboli di una rivoluzione giovanile che, almeno in Italia, non seppe però andare oltre la contestazione e la demolizione del principio di autorità. Se oggi siamo una nazione tecnicamente fallita è perché in tutti questi anni quel principio non solo non é stato surrogato ma é scomparso quasi ovunque.

Castro non voleva Cuba “bordello degli Usa”

Castro, invece, la sua rivoluzione nazionale contro il corrotto regime di Fulgencio Batista l’aveva fatta sul serio. E non fu, almeno nelle sue premesse, una rivoluzione comunista, tanto è vero che il suo successo fu facilitato dal disimpegno americano da quel turbolento avamposto, dove ad una rivoluzione seguiva un colpo di stato e viceversa. Per Washington, Castro valeva Batista purché restasse ferma la condizione di Cuba come bordello dell’America. Ma proprio nel potente vicino il Lìder Maximo individuò la causa dei mali della sua isola, a cominciare dalla corruzione dilagante in ogni ganglio della vita pubblica. Si appoggiò all’Urss di Nikita Krusciov solo quando si rese conto di non poter tenere testa agli Usa senza alcuna protezione. La storia non si fa con i “se”, ma è probabile che se la rivoluzione dei Barbudos fosse scoppiata negli anni ’30, è assai probabile che Castro sarebbe diventato un caudillo dalle forti simpatie per il fascismo e per Mussolini.

La sua utopia è sfociata in un tragico fallimento

Ma tant’è: il feroce bipolarismo imposto dalla Guerra Fredda non lasciava galoppare la fantasia: o con Washington o con Mosca, sebbene formalmente Cuba rientrasse nei cosiddetti “Paesi non allineati“, l’alleanza politica internazionale inventata da un altro dittatore comunista, l’infoibatore Josip Broz detto Tito, dopo la fuoriuscita della ex-Jugoslavia dall’orbita d’influenza sovietica. La condizione geopolitica di avamposto comunista nei Caraibi fu il ferro che inchiodò Castro alle sue terribili contraddizioni: l’Isola che i rivoluzionari in cachemire dell’Occidente avevano innalzato a luogo eletto del comunismo dal volto umano si era in realtà trasformata, sotto Castro, anche in un’implacabile macchina di repressione da cui non scamparono neppure molti tra i suoi compagni di lotta. Per decenni, agli occhi del mondo Cuba ha rappresentato, nel contempo, una speranza e un fallimento. Una contraddizione che neppure la recente visita di Papa Francesco e l’apertura di Barack Obama sono riuscite a risolvere. Forse ci riuscirà ora la morte del suo padrone e demiurgo, che con sé porta il peso di un’utopia costata lutti e sangue. Un tratto, questo, comune a tutti i rivoluzionari trasformati in tiranni dalle necessità imposte dalla storia, spesso anche oltre le loro stesse volontà. Ma anche per questo destinati a lasciare nel mondo un segno indelebile e un vuoto ingombrante.

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