Carminati replica all’Espresso: ho corrotto i giudici? Dimostratelo

24 Ott 2016 17:12 - di Paolo Lami

«Vorrei che venisse fatto un processo sui processi che si riferiscono a me, celebrati prima di questo giudizio». Massimo Carminati, imputato al processo Mafia Capitale, rompe il silenzio. E, per la prima volta, parla al processo cosiddetto Mafia Capitale. Lo fa con una dichiarazione spontanea prendendo spunto dal fantasioso servizio de L’Espresso dal titolo “Ricatto alla Repubblica” dedicato al furto, nell’estate del 1999, nel caveau dell’agenzia della Banca di Roma nel palazzo di giustizia di piazzale Clodio.
Nel servizio il giornalista Lirio Abbate corre in soccorso della tesi della Procura di Roma nell’ambito del processo Mafia Capitale e arriva a ipotizzare che quel furto sarebbe servito a Carminati per crearsi un dossier e, poi, ricattare, nel corso degli anni, attraverso i documenti prelevati da quelle cassette di sicurezza, magistrati e avvocati titolari di quei depositi ottenendo, in sostanza, pene lievi o, comunque, non parametrate ai reati compiuti.
Un’accusa pesante quella di Abbate e dell’Espresso, un’accusa che chiama in causa tutti i magistrati che si sono occupati delle vicende di Carminati, a iniziare proprio dalle toghe che hanno chiesto le condanne e da quelle che le hanno irrogate nei vari processi contro Carminati.
Abbate pubblica alcuni nomi della lista dei derubati – “l’elenco completo non è mai stato reso pubblico” scrive Abbate certamente dimenticando che quell’elenco fu depositato agli atti del processo di Perugia e che i derubati vennero anche ascoltati dai magistrati – e sostiene che il furto di quei documenti rese Carminati un “intoccabile”.
«Ieri l’Espresso ha pubblicato un articolo su di me, con la mia foto in copertina, nel quale si fa riferimento alla lista delle cassette di sicurezza che ho sottratto nel furto al caveau. Si fa intendere nell’articolo che io ho corrotto i giudici del processo Pecorelli, i quali sono stati offesi. Io sono «il più scemo». Io non mi devo difendere solo in questo processo, ma anche in quello che sta succedendo fuori», dice Carminati.
Per quel furto al caveau di piazzale Clodio, Carminati venne condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione, tre dei quali non scontati grazie all’indulto. Al processo di primo grado il collegio presieduto da Massimo Ricciarelli – a latere Anna Bora e Annarita Cataldo – lo aveva condannato a 4 anni mentre il pm, Antonella Duchini, aveva chiesto condanne variabili  da tre anni e otto mesi a quattro anni e tre mesi per i sette presunti organizzatori ed esecutori del colpo, fra cui Carminati, nonchè per uno dei carabinieri del reparto magistratura che era addetto al controllo degli uffici giudiziari sollecitando, inoltre, il proscioglimento «perché il fatto non sussiste» anche per i nove imputati, compreso Carminati (che si è sempre proclamano totalmente estraneo), che erano accusati di associazione per delinquere.
Resta ora da capire quale sarà la mossa dei magistrati accusati dall’Espresso e da Lirio Abbate di essersi fatti ricattare e corrompere da Carminati. Primi fra tutti quelli dei processi Pecorelli dove Carminati viene assolto in tutti e tre i gradi. C’è da immaginare che quei magistrati chiederanno di essere tutelati dal Csm. Ed è anche probabile che partano le querele.
Coglie l’occasione per ricordare come andarono effettivamente le cose, l’avvocato di Massimo Carminati, Ippolita Naso smentendo la fantasiosa ricostruzione di Lirio Abbate: «Nel processo di Perugia è emerso che furono i carabinieri e non Carminati a inventarsi quel furto al caveau di piazzale Clodio. Ci avevano già provato in precedenza con il furto al caveau della banca interna della Cassazione prima di puntare a quella di piazzale Clodio. Furono i carabinieri che si rivolsero ai cosiddetti “cassettari” per portare a termine il colpo. E non è mai emerso che vi fossero documenti scottanti nelle cassette di sicurezza Anche la storia del ricatto non ha mai trovato fondamento né prove».

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