Il “sogno americano” è finito: lo dimostra la campagna per la Casa Bianca

26 Ott 2016 19:03 - di Lino Lavorgna

Comunque andrà a finire, l’8 novembre, gli Stati Uniti avranno un pessimo presidente e ciò rappresenterà un problema per il mondo intero. Azzardo una previsione: vincerà Trump, nonostante la forte campagna denigratoria per il suo comportamento con le donne.

E’ indubbio, infatti, che lo strambo personaggio possa contare su una enorme messe di sostenitori, dato di non facile comprensione, soprattutto per un europeo, nonostante gli USA ci abbiano abituati a presidenti mediocri figli dell’alta borghesia, sempre vincenti contro i pochi “illuminati” figli solo del proprio talento.

Per capire il suo appeal sull’opinione pubblica, un appeal che ha sedotto anche molti “democratici” (sia pure nei limiti che tale termine assume nella società americana, capace di esprimere individui che coniugano buoni principi con il più esacerbato razzismo), non basta soffermarsi sulle vicende recenti, sulla paura nata dal diffuso terrorismo e sulle angosce post 11 settembre. Bisogna andare molto indietro nel tempo, fino agli albori del “Nuovo Mondo” e alla colonizzazione europea delle Americhe, quando iniziò a formarsi un embrione di “ideologia americana”, che il filosofo Alain de Benoist vede solo come rifiuto di quella europea, essendo l’America stessa il rifiuto materiale dell’Europa. Tutto ciò che l’Europa non sopportava e tutti coloro che l’Europa non sopportavano, trovarono terreno fertile oltre oceano, realizzando quel “melting pot” che sopravvive tutt’oggi: puritani perseguitati dagli anglicani, cattolici perseguitati dai protestanti, protestanti perseguitati dai cattolici, ebrei vittime dei progrom, insofferenti con pulsioni anarchiche, visionari di ogni ordine e grado. A costoro si aggiunsero gli “affamati”, che il vecchio continente abbandonarono loro malgrado e con sommo rammarico, per necessità vitali legate alla mera sopravvivenza. Dall’incontro-scontro di queste due componenti nacquero gli Stati Uniti d’America e le sue mille contraddizioni. Molto negativo il retaggio generato dai “rifiuti”, che diedero origine alle varie organizzazioni criminali. Vitale quello degli “affamati” che, lavorando sodo, crearono il mito “dell’american dream”. Le colonizzazioni, del resto, sotto questo profilo, si assomigliano tutte.

Gli italiani di oggi, in massima parte, sono i discendenti dei tanti “dominatori” che si sono succeduti nel corso dei secoli e portano nel DNA sia il retaggio ancestrale delle dominazioni positive (Normanni, Svevi, Longobardi) sia quello nefasto delle colonizzazioni negative (Aragonesi, Spagnoli, Angioini). Sorvolo su quelle degli Arabi e dei Francesi, la cui analisi sociologica, dicotomica tra bene e male, richiederebbe troppo spazio, portandoci fuori tema.

Ritornando agli USA, il primo dato da prendere in considerazione è il marcato calvinismo, intriso di quel puritanesimo che, sostanzialmente, genera una società incapace di individuare dove si annidi “il vero male”.

In Europa siamo abituati a concepire le guerre d’indipendenza come la rivalsa dei popoli tiranneggiati. La guerra d’indipendenza americana fu solo l’arrabbiata reazione dei coloni alle restrizioni commerciali imposte dalla madre patria. Il collante fu determinato dal primato del profitto su ogni altro elemento sociale e il possesso di beni e dollari come unico termine di paragone per sancire le differenze. Lo stesso concetto di “uguaglianza naturale” che, è bene ricordarlo, precede quello affermatosi in Francia, è antitetico al modello europeo. In America è dalla “libertà” che deriva l’uguaglianza e non viceversa e la differenza, che a prima vista potrebbe apparire effimera, essendo analogo il presupposto originario – tutti gli uomini nascono liberi e uguali – assumerà un rilievo fondamentale nel processo evolutivo della società americana.

Un altro aspetto che può aiutarci a capire fenomenologie sociali sconvolgenti per un europeo, è la naturale propensione al cattivo gusto, in ogni contesto, ereditata dai progenitori. Nella madre patria, però, la mancanza di gusto e senso estetico è stata sempre coperta e mascherata dalla “vicinanza” con l’Europa. Con il  distacco dei coloni e senza il supporto della civiltà europea, in America si è registrato un progressivo involgarimento della società, in tutti i campi. Mentre in Inghilterra la società aristocratica precipitava verso la borghesia, negli USA si affermava la parodia della società europea, conferendo “nobiltà” esclusivamente al “dio denaro”.

La parola “gentleman” non ha varcato l’Atlantico e non esiste nel costrutto sintattico statunitense, alla pari di “lady”. Il termine “business”, che originariamente intendeva caratterizzare un individuo semplicemente “impegnato a fare qualcosa”, è stato mutuato in quello più consono al tipo di mentalità che si andava affermando, divenendo “affare”. Di rilevante importanza, a tale proposito, il saggio di Guglielmo Ferrero, “Fra i due mondi”, del 1913. In esso lo storico distingueva le civiltà quantitative da quelle qualitative, spiegando che l’accumulo delle ricchezze porta al progressivo declino della società. Nelle società qualitative (il Ferrero si riferiva precipuamente al mondo greco-romano) si producono capolavori, opere d’arte in grado di elevare lo spirito, muovendosi entro limiti prestabiliti. Nelle società quantitative l’unico scopo è l’accrescimento della ricchezza, senza limiti (e senza regole), generando quelle fratture sociali che, inevitabilmente, sfociano in guerre. Già nel 1913 quindi, Ferrero vedeva nel dinamismo americano uno sviluppo incontrollato e incontrollabile della tecnica produttiva. Una civiltà, quindi, senza valori stabili e senza freni interni, che preparava da sé la propria catastrofe. E’ stato un valido profeta. Lo storico statunitense Henry Steele Commager, nel 1952, con il saggio “Lo spirito Americano”, ripropone la tesi di Ferrero: “La peggior disgrazia che potesse capitare a un partito politico era una crisi economica e la più grave obiezione a una legge era la sua nocività per gli affari. Tutto ciò tendeva a dare una forma quantitativa al pensiero, conducendo l’americano a mettere pressappoco al di sopra di tutto una valutazione quantitativa. Quando domandava quanto valeva un uomo, voleva parlare del valore materiale, e si irritava di ogni altro sistema di apprezzamento. Anche la soluzione che proponeva a numerosi problemi era quantitativa, e che si trattasse dell’educazione, della democrazia o della guerra, il trattamento attraverso i numeri era il rimedio sovrano”.

L’american way of life trasforma una società viva in una società meccanica, avulsa dai reali valori e tutta imperniata sull’apparire, in funzione del conto in banca e del “ben-essere” che si riesce a mettere in mostra. Il concetto di “essere” è del tutto sconosciuto. Voglio citare, in merito, un episodio emblematico di cui sono stato diretto testimone. Qualche anno fa, a New York, conobbi un facoltoso businessman che veniva spesso in Italia per motivi di lavoro, innamorato della costiera amalfitana e desideroso di acquistare una villa a Positano. Aveva già acquistato presso uno dei più prestigiosi cantieri nautici italiani, per la modica cifra di sette milioni di euro, un lussuoso 13 metri munito di ogni confort. Gli feci notare che la scelta non mi sembrava pertinente. Avrebbe speso molti soldi per la villa e avrebbe avuto problemi con la barca. Più razionale risultava l’acquisto di una villa a Vietri sul Mare o a Salerno, beneficiando di un porto turistico all’avanguardia. La costiera l’avrebbe potuta godere in toto via mare, raggiungendo i vari siti con il gommone. Avrebbe risparmiato, soprattutto, un buon 50% sul prezzo dell’immobile, a parità di superficie. Mi guardò come se avessi detto la baggianata più grande del mondo. “Oh yeeeea… posso capire che le case a Vietri sul Mare o a Salerno costano di meno e che la barca deve stare a Salerno, ma ai miei amici una cosa è dire che ho una villa a Positano e altra cosa è dire di averla a Vietri o a Salerno, che nemmeno sanno dove siano”. Il dato più importante di tutta la storia era “poter apparire” agli occhi degli amici come il proprietario di una villa a Positano. E pazienza se ciò significava “sprecare” qualche milione di dollari e perdere un’oretta solo per raggiungere il porto. (Parlare dello “spreco” non è possibile in questo articolo, anche se sarebbe molto interessante: basti dire che NON con ciò che si consuma, ma SOLO con ciò che si SPRECA quotidianamente negli USA, soprattutto in campo alimentare, si potrebbe risolvere il problema della fame nel mondo).

Una società sostanzialmente mediocre, quindi, vuole essere rappresentata da uomini mediocri, che sente “vicini”. Uomini colti e raffinati, che pure vi sono, non hanno alcuna possibilità di affermarsi oltre certi limiti. Al Gore, che sarebbe stato il miglior presidente della storia degli USA, è un esempio eclatante di questo postulato. Il Capo dello Stato deve essere un uomo come gli altri, un “brav’uomo”; se fosse superiore, un “uomo bravo”, inquieterebbe. In una democrazia normale si spera che siano i migliori a prevalere. In America, invece, si amano i “winners”. Non importa come siano diventati tali, purché siano e appaiano il più possibile delle persone comuni. Nella campagna elettorale il politico che vuole vincere le elezioni deve preoccuparsi di “assecondare” gli umori della massa, recitando la propria commedia con un tasso di ipocrisia che non ha eguali al mondo. Il secondo emendamento, che costituisce un abominio, è argomento “tabu” per ogni politico che aspiri a vincere le elezioni. Parlarne significa mettersi contro la maggioranza degli elettori e le potenti lobby delle armi: la sconfitta è sicura. La cinematografia, del resto, non ha mai mancato di evidenziare le molteplici e gravi distonie della politica statunitense. Recentemente, poi, con la fiction “House of cards”, si è passati a una divulgazione quasi “didattica” del sistema.
Paradossalmente, invece di “aprire gli occhi”, gli americani sembrano affascinati dallo scarso o nullo senso etico con il quale vengono rappresentati i cinici politici, pronti a tutto pur di raggiungere il potere. Tale virus, tra l’altro, grazie allo straordinario potere condizionante dei media, si sta diffondendo in modo virale anche in Europa. Non a caso, l’attuale capo del governo italiano, ha imposto ai suoi discepoli di abbandonare i classici del pensiero politico e di dedicarsi esclusivamente alla visione della fiction, invitandoli ad emulare i loro colleghi d’oltremare.

Un altro aspetto da non sottovalutare è la scarsa propensione degli americani a conferire un potere immenso a una donna. Ho ascoltato il parere di molti amici che hanno sempre sostenuto i candidati democratici, i quali, con sconcertante naturalezza e senza alcun imbarazzo, hanno dichiarato “che non è possibile affidare la valigetta a una donna”. Una estrema sintesi di un ragionamento molto più profondo e complesso, tra l’altro ben sviluppato in un vecchio film del 2000, che invito a vedere: “The contender”, diretto da Rod Lurie. Nel film la vittima del misoginismo statunitense era una semplice “vice-presidente”, che nell’impianto costituzionale americano conta come il due di coppe a briscola, quando la briscola è di un altro colore. Figurarsi ora, nella realtà, con la Clinton!

Da qui alla possibile affermazione di Trump, il passo è breve. La Clinton, ovviamente, gli è superiore in tutto, anche se per certi versi rappresenta il lato “B” della stessa medaglia.

Se vincesse lei avremmo “il male minore”. Ma a conclusione di questo articolo non me la sento di auspicare la sua vittoria. Bisogna smetterla sia con il male maggiore sia con quello minore. E’ ora che questo mondo inizi ad affidarsi ai migliori. Ovunque.

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