5 Stelle, la crisi viene da lontano. Ma è meglio capire che esultare

9 Set 2016 13:19 - di Carmelo Briguglio

La crisi politica dei 5 Stelle non è un dato positivo per la democrazia italiana: affermazione questa non di tendenza, lo comprendiamo. Ma, un’analisi neutra e spoglia di passioni, qui porta. L’eventuale défaillance di Virginia Raggi, a pochi mesi dall’insediamento, non gioverebbe né a Roma, né alla politica italiana. Abbiamo visto solo qualcuno pensarla così. In questi giorni di scenari obiettivi se ne sono visti pochi. C’è stata l’esibizione di cori del “non aspettavamo altro, finalmente”. Un habitus mentale, anche di fini editorialisti, distante da quello di Amerigo ne La giornata di uno scrutatore (Mondadori) di Italo Calvino: «Si buttava allora coi suoi pensieri nella direzione d’un possibilismo tanto agile da permettergli di vedere con gli occhi stessi dell’avversario le cose che dianzi l’avevano sdegnato, per poi ritornare a sperimentare con più freddezza le ragioni della sua critica e tentare finale un giudizio sereno».

Osservatori anti 5 Stelle: “moderati”, “minacciati”, “vendicativi”, “giustizieri”

C’è un’area di osservatori “moderati” che per costituzione culturale, per ascendenza intellettuale, per linea editoriale, gongola. Questione di principio: la caduta nella polvere dei “rivoluzionari” è per loro conferma del proprio statuto morale, del loro essere al mondo; una conferma che la loro visione storica è quella giusta, perchè quella opposta fallisce. Sono coloro che “era chiaro fin da principio “, “non poteva che finire così”. C’è poi la voce di quanti hanno da perdere, rappresentano interessi costituiti: vedono nell’amministrazione dei 5 Stelle a Roma – domani al governo – una minaccia, un pericolo per posizioni che hanno consolidato grazie a partiti e gruppi politici “di prima”; e auspicano un default per ritornare all’ancient regime che li ha favoriti o aiutati. Lobby e blocchi sociali, gruppi di pressione, mondi imprenditoriali, burocrazie, ma talvolta comitati d’affari di alto o losco livello. I quali combattono la loro battaglia con i clan, veri o presunti, che accompagnerebbero l’ascesa di uomini e donne di Grillo e Casaleggio Associati. E si capisce.

Segue – ma, se volete, mettetelo al primo posto – il Pd e lo stesso presidente del Consiglio, con al seguito media governativi, Rai e gangli vitali dello Stato – Cantone farebbe bene a tirarsi fuori – che sparano a zero, a prescindere: lì la lente d’ingrandimento è utilizzata anche per le cose minime e la serenità delle valutazioni è offuscata da odio allo stato puro e palese spirito di vendetta. Infine, c’è il presidio giustizialista – portavoce Travaglio – che fa da guardiano della rivoluzione: il “marcio” va eliminato. Le dimissioni dell’assessore Muraro e, se necessario, della sindaca Raggi, s’impongono. Perché poi il “marcio” – se tale è – cominci a esserci troppo spesso dalle parti dei grillini, è questione che chi “custodet ipsos custodes” non sembra porsi. Nessuna di queste correnti di opinione sembra sapere o volere risalire alle sorgenti del “male oscuro” che ha preso il Movimento 5 Stelle: tutte le vicende Muraro-De Dominicis-Minenna-Raineri-Marra-Romeo sono i sintomi, non la malattia.

8 settembre, Berlusconi, Grillo: il carattere nazionale non cambia

La prima questione, politica e fondante, riguarda gli elettori di Grillo. Al quale, in proporzione, capita ciò che accadde con la caduta del fascismo, dopo l’8 settembre del ’43 (del quale ieri cadeva l’anniversario); o, più vicino nel tempo, ciò che è successo con la discesa in campo di Silvio Berlusconi nel ’94. Non ci fu – espressione cara a Salvini – nessuna sostituzione etnica: gli italiani antifascisti erano gli stessi italiani che poco prima erano stati fascisti. E gli elettori che votarono il “nuovo” rappresentato da Forza Italia, erano gli stessi che avevano votato per i vecchi partiti della Prima Repubblica: democristiani, socialisti, laici. Li sostenevano, facevano campagna elettorale. E frequentavano le segreterie degli “onorevoli”, ottenevano da loro “favori” e aiutini vari. Ne erano clientes. Poi, li hanno mollati. E hanno scelto il “nuovo”. Che oggi non è più nuovo; ne ha preso il posto un altro “nuovo”: i 5 Stelle. Al M5S dovrebbero capire che i loro elettori non sono “nuovi”. Non sono né “puri”, né marziani, ma italiani che votano da anni, da decenni; in molti casi erano agit-prop, militanti, quadri dirigenti di “quelli che c’erano prima”. E talvolta ne rappresentavano i colori sociali nelle istituzioni, negli enti locali, nella burocrazia, nella cultura, nei giornali, nelle banche; anche nei mondi, apparentemente più neutri, dell’economia e della finanza. Adesso “quelli di prima” il Movimento 5 Stelle se li ritrova tra i suoi sostenitori. Convinti. Ferocissimi. Com’è sempre stato a ogni cambio di regime o di sistema politico. E com’è nel nostro carattere nazionale. È “normale” che la sindaca Raggi sia consigliata dall’avvocato Samnarco (Previti), abbia come assessore la Muraro (Cerroni, Panzironi, Buzzi), si tenga come vice capo di gabinetto Marra (Alemanno, Polverini). Il presente è anche il passato. Non si possono cancellare migliaia o milioni di donne e uomini; in un certo senso sono insostituibili: è inevitabile si finisca per pescare persone che c’erano già. Il mare è lo stesso: la società italiana. Ed è esercizio difficile quello di trovare “alternative”: ci sono fisicità e competenze difficili da surrogare. Al di là se è giusto o no mandarle al macero, per la sola ragione che hanno servito “quelli di prima”. La Raggi oggi fa i conti con un’ideologia – quella del suo movimento – che crede nell”uomo nuovo”. In una mutazione antropologica che la politica presente ritiene di potere produrre solo per il fatto di essere arrivata lei. Il “nuovo” non cambia le teste. Non può. È qualcosa che ha a che fare con la costruzione o decostruzione dell'”italianità”. Occorrono secoli.

Il problema della classe dirigente: non c’è un ante e post 5 Stelle

Cacciare questo o quello, appena all’inizio di un governo, serve a poco. L’indomani può essere come oggi. Il fatto può riprodursi con altre “maschere”. Lo stato di rivolta permanente, in cui nei pentastellati si gioca a nominare e poi revocare, decidere e subito dopo mettere in discussione, se portata avanti senza un finale coagulo di energie, non dà il senso di uno “stato nascente”, ma di una anarchia permanente che si scontra con la domanda di stabilità che, dopo la caduta degli idoli, richiedono tutte le comunità organizzate. Pena: l’implosione. Un rischio che il M5S corre. E serve a poco nascondere secondo canoni vecchissimi pre-streaming; o nascondersi dietro Grillo che, con l’occasione, ha dovuto mettere una pezza a colori su bisticci e pasticci dei leader-ragazzini.

A guerra finita, anche prima, Palmiro Togliatti si prese buona parte di classe dirigente, intellettuali, giovani che avevano aderito al fascismo. Comprese che erano quadri già formati che poteva introdurre nel partito e nelle istituzioni al servizio del “nuovo”, il Pci. Ciò spiega – al di là della facile e non infondata polemica su opportunisti e “voltagabbana” – perché molti “fascisti” diventarono comunisti. Anche di vertice. Le storie – dal nero al rosso – pur diverse, ma esemplari, di Pietro Ingrao, Renato Guttuso e Dario Fo (neogrillino) sono parte di questa Storia. E tante altre nella pubblica amministrazione, nell’editoria, nella magistratura. Non sembrò paradossale, né scandaloso, a Togliatti, divenuto ministro della Giustizia, prendersi come capo di gabinetto Gaetano Azzariti, che era stato presidente del Tribunale della Razza e giurista firmatario del Manifesto della Razza. Altro che Marra e Romeo.

E l’imprenditore Berlusconi, uomo pratico, al di là di marketing e agiografie interessate, non ha mai creduto di plasmare l'”homo berlusconis”: si prese per la sua Forza Italia larga parte del mondo socialista (Bonaiuti, Brunetta, Cicchitto, Frattini, Sacconi, Caldoro, Stefania Craxi), uomini della Dc (Pisanu, Scajola, La Loggia), qualche liberale (Biondi). Utilizzò largamente il “materiale umano” della Prima Repubblica.

Nessuno vince da solo: affinità elettive e alleanze a destra?

I 5 Stelle – seconda questione – devono sapere: scopriranno sempre, appena messo il naso fuori dalla tana, che il personale da cui selezionano assessori, presidenti, amministratori delegati o direttori generali, tecnici, insieme al know-how ha anche un back-ground. Un passato che non può passare. Ne devono prendere atto. Come? Non cadendo nell’errore di volere mettere tutti “i loro” in ruoli pubblici, che poi non è una grande originalità. Nel non coltivare la retorica della verginità e del distacco. E nel non credere che il M5S abbia un compito messianico; che la storia politica e istituzionale, al centro e in periferia, segni un “ante” e un “post” a partire da loro. Dal Comune di Roma, domani – se accadrà – a Palazzo Chigi, la necessità di fare “rotture”, non può portarli a pensare di fare a meno degli “altri”. Di tutti gli altri. Molti dei quali grillini non sono e non lo saranno mai.

Negli annali della Repubblica, nessuno ha mai vinto da solo. Né sul piano politico, né su quello sociale. Nè su quello elettorale. Nemmeno De Gasperi. Neppure Berlusconi. La domanda piuttosto da porsi è se la crisi scatenata al Comune di Roma sia una crisi di crescita o l’emergere di un limite incapacitante. È una lezione da cui il Movimento 5 Stelle potrà imparare qualcosa? Ad esempio, che l’evocazione dei poteri forti è l’alibi di politici deboli; che la mediazione alta, le alleanze sociali e politiche – perché no, anche a destra, ad esempio con Lega e Fdi con cui ci sono affinità elettive non trascurabili – e sociali, insieme alla capacità, in una certa misura, di essere “eredi” sono importanti non meno della voglia di cambiare, d’incarnare la discontinuità. Se si vuole costruire una cultura politica duratura. E dare prova di un “populismo di governo” che non abbia niente e nessuno da fare rimpiangere. La Raggi, che si agita tra voglia di autonomia ed eterodirezioni varie, ad oggi non pare sapere interpretare questo “populismo di governo”, che pure leghisti e post-fascisti in qualche modo e con molti limiti impersonarono nel ventennio berlusconiano. Ma è giusto dare tempo a lei e al M5S. Per rivedere, maturare, correggere. E guardarsi intorno. Comunque la si pensi. È interesse anche della “rive droit”, libera di un berlusconimo alla fine del suo percorso.

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