La ginnasta Carlotta Ferlito crocifissa per una frase (smentita) di tre anni fa

12 Ago 2016 14:13 - di Luca Maurelli

Su Internet, si sa, tutto è relativo, anche la morte. Può accadere, per esempio, che uno come Paul Newman deceda tra mille onori e pianti commossi del mondo intero otto anni fa ma poi improvvisamente, qualche giorno or sono, torni immediatamente d’attualità con una notizia flash che coglie tutti di sorpresa: la sua morte. Se fosse un film sarebbe “L’uomo che visse (anzi morì) due volte” ma in questi anni, in verità, di vip deceduti sul web e risorti il giorno dopo sulla stessa rete, ne abbiamo visti tanti. Quello che in genere muore più spesso (e si fa delle crasse e grasse risate) è Paolo Villaggio, che di questo passo, a furia di tirargliela, forse resterà immortale non solo come Fantozzi.

Carlotta Ferlito e il tweet vecchio e smentito

Miracoli della moderne Catene di Sant’Antonio che sul web si riproducono alla velocità della luce offrendo fuffa alla massa di creduloni che clicca “like” a mitraglia o condivide qualsiasi notizia, vera o falsa che sia, riproducendola a dismisura fino a crare un Leviatano mediatico che alla fine vince, si impone, diventa quasi realtà. Ecco perché l’ultimo fenomeno di “fake” ai danni di un inconsapevole (per fortuna vivente) personaggio della vita pubblica è esploso con clamore durante le Olimpiadi di Rio, all’indomani della bella prova della ginnasta italiana Carlotta Ferlito, in gara nelle finali del corpo libero con l’altra azzurra Vanessa Ferrari. Una grande atleta, Carlotta, ma anche una bella ragazzza: 21 anni, siciliana, protagonista da qualche anno di un programma sulla ginnastica, “Ginnaste-Vite parallele”.

Poco dopo la fine della gara, vinta dall’americana Simone Biles, qualcuno, su Twitter, ha rispolverato alcune dichiarazioni della Ferlito rilasciate al termine di una gara del 2013. Puntando l’indice su quella frase, (pronunciata con tono scherzoso, come ben spiegato in questo articolo dell’epoca) sulla statunitense di colore che l’aveva battuta all’epoca: “La prossima volta ci dipingeremo la pelle di nero per vincere”. Roba vecchia, ma l’intento di chi ha provato ad inquinare i pozzi del web era quello di giocare sull’equivoco, dando l’impressione di un commento a caldo dell’atleta dopo la sconfitta.

Ma quella frase, oltre a essere di tre anni e mezzo prima, era stata pronunciata a corollario di un ragionamento sui giudici che favorivano le grandi potenze, Usa e Russia, a prescindere dalla pelle, a scapito delle nazioni dal pedigreé meno prestigioso. Parole infelici ma immediatamente smentite, rettificate, confutate dalla stessa atleta azzurra, che ne aveva spiegato bene il senso. E che all’epoca – va ricordato – aveva solo 18 anni: «Voglio scusarmi con le ragazze americane. Non intendevo essere maleducata o razzista. Adoro Simone e sono una grande fan delle ginnaste statunitensi. Ho commesso uno sbaglio, non sono perfetta. Ero troppo nervosa e non ho pensato a cosa stavo dicendo. Sono solo un essere umano. Mi dispiace tanto», si era difesa la siciliana in quel 2013. Ma se neanche la scuse e la giusta e la doverosa flagellazione, da “essere umano” che fa una gaffe, riescono a relegare nell’oblìo una vicenda così antipatica, cosa avrebbe dovuto fare Carlotta per farsi perdonare?

La rete non perdona, in nome dell’ipocrisia

Niente fa dare. A distanza di tre anni la rete l’ha rimessa alla gogna, al termine della gara di Rio vinta dalla Biles. Quella frase di Carlotta è diventata subito un trend topic, scatenando insulti anche dall’estero e la riproposizione di vecchi articoli anche della stampa straniera. Peccato che in pochi, tra coloro (anche tanti italiani) che si scatenavano in censure indignate, avessero compreso che quella frase era datata, datatissima, e chi lo aveva notato aveva fatto finta di non accorgersene e di non sapere nulla di tutto il seguito di scuse, rettifiche e cospargimento di cenere sul capo della nostra atleta olimpica.  Niente da fare, il tritacarne è partito, la valanga di insulti è continuata. Perché il razzismo, a volte, è più nella testa di chi lo commmenta di chi, forse involontariamente e comunque scusandosi fino all’autoumiliazione, lo esprime. In sintesi: Dio perdona, il web no.

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