L’analisi – “Paradosso Parisi”: Forza Italia si fa azienda-partito

27 Lug 2016 16:11 - di Carmelo Briguglio

“Quant’è penoso, o Giove, e voi tutti, o dèi, diventare schiavo d’un padrone che non ha senno…Eccolo che cammina dietro un cieco, facendo il contrario di quello che gli converrebbe fare. Poiché dovremmo essere noi, che vediamo, a guidare i ciechi…Ebbene, non c’è pericolo che io taccia, se non mi spieghi una buona volta perché seguiamo quest’uomo, o padrone”. È ciò che Aristofane fa dire a Carione nella commedia “Pluto”. E, “incredibilmente”, Cremilo gli risponde: “In termini chiari, il dio mi ha detto di mettermi alle costole del primo che avrei incontrato, uscendo”.

Nemmeno una spiegazione tanto assurda potrebbe chiarire la misteriosa ragione per la quale Silvio Berlusconi si è persuaso che Stefano Parisi sia l’uomo della Provvidenza al quale affidarsi per rilanciare il suo partito e fare tornare a vincere il centrodestra. È possibile che, in una stagione con forte deficit di classe dirigente, personalità di modesta caratura politica possano proiettare un ‘immagine più elevata del loro effettivo livello politico. Oppure, che il percorso aziendale dell’ex amministratore delegato di Fastweb funzioni ancora come calamita della monomania dell’ex Cavaliere, il quale da sempre non ama quanto sa di “politico” di professione. Matteo Salvini e Giorgia Meloni ne sanno qualcosa. Anche la radice socialista e l’appartenenza “meneghina” di Parisi, a Berlusconi piacciono per intuitive ragioni: gli richiamano un’età dell’oro per i suoi interessi commerciali al tempo della “Milano da bere” e dell’Italia craxiana. Tutti questi ingredienti che Parisi effettivamente possiede – insieme a un buon capitale di relazioni e a un discreto modo di affacciarsi in televisione – avranno convinto il leader di Forza Italia a puntare su di lui per ridare smalto agli azzurri e a benedirlo come suo candidato ideale alla premiership.

Con la nomina di Parisi, Berlusconi ha sfiduciato la sua classe dirigente: avanza l’azienda-partito

Il che – come prova la generale sollevazione contro la “nomina” in FI – ha il chiaro significato di una sfiducia palese di Berlusconi nei confronti della sua dirigenza. La quale, infatti, si è ribellata. Ovviamente, nelle forme e nei modi in cui può essere consentito in un’azienda-partito: “forma” politica verso cui – specie dai giorni in cui B. è stato ricoverato al San Raffaele – sembra marciare spedito ciò che fu il partito maggioritario del centrodestra italiano. Che Parisi sia molto gradito a Confalonieri, Letta e Ghedini e indigesto a quasi tutto il tavolo politico dove siedono Toti, Brunetta e Romani, è la conseguenza di questa dinamica. La quale, in tempi brevi, potrebbe sfociare in un conflitto aperto o, secondo alcuni, in una scissione, l’ennesima che subirebbe il mondo berlusconiano. Dove, man mano che le condizioni fisiche del vecchio capo mostreranno acciacchi e cadute – inevitabili con l’avanzare dell’età – non è difficile prevedere una crescente divisione tra “politici” e “aziendali”, con prospettive e interessi diversi, destinati a divaricarsi. Il nuovo arrivato Parisi si è già posizionato tra i secondi.
La domanda è: il manager è la persona adatta a ridare smalto ai berlusconiani e addirittura a fare l’anti-Renzi alle prossime politiche ?
C’è da dubitarne. Molto. Intanto – obbligatorio osservarlo – negli ultimi tempi il declino politico di Berlusconi produce scelte intuitu personae, di norma sbagliate, laddove un tempo erano di norma appropriate. Desta una certa impressione che dei tre candidati scelti dall’ex presidente del Consiglio per fare il sindaco a Milano, Roma e Napoli, nessuno ce l’abbia fatta. I risultati dicono sono state selezionate persone giudicate inadeguate dagli elettori. Il primo è proprio Parisi sotto la Madonnina. Seguìto da Marchini nella Capitale e da Lettieri nella città partenopea. Tutti e tre sconfitti. Tutti e tre moderati. Tutti e tre uomini d’impresa. Tutti e tre liberali. Tutti e tre molto “europei”. Tutti e tre perdenti.

L’ex ad di Fastweb è uomo del passato con idee vecchie: l’imposizione delle mani non funziona più

L’imposizione delle mani da parte di Berlusconi non è calata sulle teste giuste. Il rito non ha funzionato. E non funziona più da tempo. Il fatto che l’ex dg di Confindustria sia stato individuato dall’ex Cavaliere, non è più garanzia di arcano “sapere”, ma espressione di abilità appannate, fuori dal tempo politico che viviamo.
E che Parisi abbia perso con Sala, ne fa un uomo d’insuccesso che non può quindi assolvere, anche sul piano dell’immagine e della comunicazione, alla domanda di novità politica e di rivincita alla quale il centrodestra italiano vorrebbe rispondere.
Parisi è un uomo del passato. Non tanto, perché è “ex tutto” e ha avuto ruoli in governi e istituzioni che risalgono all’archeologia politica, dove coloro che ha servito – Ciampi, De Michelis, Amato – riposano da molto tempo. È la sua proposta politica “liberal popolare” che emana sgradevoli odori di stantìo. Idee da vecchia soffitta, nuove e attrattive quando i trentenni italiani ed europei di oggi non erano ancora nati e il mondo poggiava stabilmente sulla solida architrave bipolare di due famiglie politiche – conservatori e progressisti – e sul pensiero unico della fiducia illimitata nell’avanzare lineare della Storia degli uomini e dei popoli. Una visione messa in crisi da inquietudini e cambiamenti dei quali i populismi si stanno facendo portatori. Tale cambio di stagione non sembra avvertito da Parisi che parla ancora il linguaggio, non di elite politiche piantate con i piedi nell’attualità, ma di gente che crede ancora nel blasone di chi proviene da imprese e Università; e che su lavoro, immigrazione, Europa, terrorismo internazionale – per parlare di temi che l’agenda contemporanea pone nel discorso pubblico – sfiora la banalità o resta silente.
Insieme all’osservazione che affermare ” non ho vinto, ma ho dimostrato che il nostro schieramento era portatore di una cultura di governo che merita di essere declinata a livello nazionale come linguaggio politico e piattaforma di contenuti”, si scontra con un’ovvia considerazione: se quella cultura di governo non ha convinto i cittadini di una grande metropoli europea qual è Milano – consegnando al centrodestra una pesante sconfitta politica in una città dove è forte e che ha già governato – perché mai dovrebbe essere proposta come ricetta vincente a tutti gli italiani, addirittura come programma di governo di un candidato premier ? Una contraddizione che l’ex numero uno di Fastweb – oggi promosso consulente politico dall’ex Cavaliere – non ce l’ha fatta finora a sciogliere. Anche perché nel centrodestra va maturando sempre più la cultura “repubblicana” di scelte dal basso al posto del conferimento di autorità dall’alto, non più accettato. Che non produce alcun effetto magico: solo errori politici su uomini e cose.

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