Dopo la strage di Monaco emerge una società depressa

25 Lug 2016 17:23 - di Mario Bozzi Sentieri

Può essere consolante – da un certo punto di vista – che  il responsabile del massacro di Monaco, compiuto tra un ristorante McDonald’s e un affollato centro commerciale a nord della città, non sia un terrorista “classico”, indottrinato dallo  jihadismo. Meno consolante è che Alì Sonboly, questo il nome del  diciottenne tedesco di origini iraniane che ha aperto il fuoco sulla folla uccidendo nove persone, fosse sotto “terapia psichiatrica” per depressione,  e che passasse gran parte del suo tempo davanti al pc, utilizzando giochi di sparatorie, ed avesse un’insana passione per le stragi.

Come hanno notato gli osservatori più attenti, l’azione di Alì Sonboly rende evidente  come oggi il “nostro mondo” non sia  solo sotto l’attacco esterno, ma debba  anche fare i conti con il “disagio” interno, con una confusa “domanda di senso”, a cui evidentemente l’Occidente non riesce sempre a dare risposte compiute, se non nelle forme surrogatorie del denaro, del consumismo, dell’appagamento individualistico. Una mancanza di “senso” che viene risolta spesso attraverso  le terapie e la medicalizzazione diffusa.

Il tema non è nuovo. Secondo Christopher Lasch, originale figura di “conservatore di sinistra”, nella società dei consumi la capacità di “fare da sé”, di pensare in modo autonomo e indipendente, è stata gravemente minacciata dalla crescita dello “Stato terapeutico”, da una sempre più diffusa dipendenza dai mass-media, dalla scienza e dalle nuove tecnologie, dal moltiplicarsi di figure quali dottori, psicologi, insegnanti. Il  risultato ? Una sorta di “medicalizzazione dell’esistenza” – come ha  denunciato Alain de Benoist, in un interessante  libro-intervista del Gruppo Opifice.

I numeri sembrano confermare queste tendenze. Secondo “Global Burden of  Disease Study” le malattie mentali e le sostanze d’abuso sono la causa principale  di malattia nel mondo e sono responsabili di più morti e malati di Hiv  e tubercolosi.  I disturbi depressivi la fanno da  padrone, rappresentando il 40% di tutti i casi di malattia mentale (soprattutto  tra i giovanissimi). Seguono l’ansia e i disturbi da abuso di alcol e droghe.

Inoltre malattie mentali e abuso di sostanze sono responsabili della perdita di 183 milioni e 900  mila anni di “vita vissuta in buona salute”, un parametro che indica gli anni di  salute persi per  morte prematura o per disabilità conseguente a una malattia.  Nel 1990 gli anni persi erano 133 milioni e 600 mila, con  un  aumento del 37,6% al 2010.

Quali le cause “di fondo” di queste tendenze contemporanee ?

La  “medicalizzazione dell’esistenza” è la terapia  largamente  diffusa – come abbiamo visto – per  un disagio esistenziale e sociale che non è eccessivo chiamare   “patologia” della modernità e che rimanda a ciò che scriveva ottant’anni fa Alexis Carrel, Premio Nobel per la fisiologia e la chirurgia fisiologica nel 1912 ed insieme scrittore originale, vicino, fino alla morte (1944) al governo del Maresciallo Pétain.

“La brutalità della nostra civiltà  – denunciava Carrel in   “L’uomo questo sconosciuto” (1935)  – non solo si oppone allo sviluppo dell’intelligenza, ma abbatte i sentimentali, i docili, i deboli, gli isolati, coloro che amano la bellezza, che ricercano nella vita altro che non il denaro, coloro la cui raffinatezza spirituale mal sopporta la volgarità dell’ esistenza moderna”. Una volgarità che si manifestava ed ancora si manifesta nell’angustia degli spazi urbani, nella rottura dei vecchi vincoli  naturali o sociali (dalla famiglia alle comunità locali), nell’ organizzazione meccanicistica  del lavoro, in definitiva in una civiltà moderna che “non è stata fatta sulla nostra misura” e che perciò molti sentono estranea.

Il risultato è che, avendo dimenticato  le sue attitudini morali, estetiche e religiose,  l’uomo – conclude Carrel – è stato trattato “come una sostanza chimica”. Ora , sempre di più, questa “sostanza” tende, in casi estremi ed estremizzati anche dagli esempi diffusi sui social, ad “esplodere”, con i risultati che abbiamo visto nelle ultime settimane, a causa di  un mix fatto di frustrazioni, di anonimia, di isolamento sociale,  di radicalizzazione religiosa, di voglia di protagonismo, di emulazione mass mediatica.

Al fondo – per dirla con Carrel – una domanda di “misura”, in un mondo che invece tale “misura” non considera o annichilisce e a cui l’integralismo islamico offre, in molti casi, una copertura ideale, tanto estrema quanto sanguinaria, laddove gli Stati occidentali non riescono a dare che qualche supporto “terapeutico”.

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