L’analisi – Campidoglio: il salto della Meloni e le asticelle di Battista

5 Giu 2016 10:54 - di Carmelo Briguglio

Pierluigi Battista – ottimo commentatore e non solo (Mio padre era fascista, Mondadori), fa una panoramica finale (Corriere, 3 giugno) sui candidati al Campidoglio e traccia la linea, al di sopra e al di sotto della quale, l’esito delle urne può giudicarsi positivo o infausto. E, così, segna traguardi e pagelle a futura memoria anche a Giorgia Meloni, candidata sindaco ma anche leader della destra parlamentare. Secondo Battista, per lei «le elezioni romane costituiscono un bivio fatale» E, descrivendo i possibili scenari, immagina tre asticelle che la Meloni dovrà saltare. La prima sarebbe da maglia nera: la leader di Fdi non va al ballottaggio e – secondo “Piggi” – sarebbe una sconfitta senza possibilità di recupero, con in più la certificazione che il radicamento della sua destra a Roma è più una leggenda di un fatto reale. Addirittura, viene da dire subito. Nel secondo, Giorgia va al ballottaggio, ma perde al secondo turno, con una “sconfitta dignitosa”: in questo caso, per Battista, sarebbe «un arretramento, ma comunque la possibilità per la sua formazione politica di giocare un ruolo decisivo». Arretramento perché? Rispetto a che ? Domande legittime che nel pezzo però non sembrano trovare risposta. Andiamo avanti. La terza ipotesi – la vittoria -spalancherebbe  alla giovane leader non solo le porte del Campidoglio, ma anche quello di un “ruolo nazionale importante, insieme all’umiliazione inferta a Silvio Berlusconi che l’aveva ripudiata”.
Francamente, stavolta l’analisi di Battista non ci sembra né appropriata, né centrata.

I tre scenari del Corriere sulla Meloni: analisi forzata

Partiamo da un primo dato: alle elezioni amministrative romane del 2013 Fratelli d’Italia presentò una propria lista di sostegno ad Alemanno sindaco e totalizzò il 5,9 per cento (poco più di 60mila voti e due seggi). Nella stessa consultazione il Pdl ebbe il 19 per cento (poco meno di 200mila voti e 7 seggi) e La Destra di Storace l’1,3% (più di 13mila voti, nessun consigliere). Si può tenere conto anche della percentuale che, sempre nella Capitale, la lista Fdi prese nel 2013, alle Regionali (si votò a febbraio, tre mesi prima delle Comunali), a sostegno di Storace presidente: 3,4 per cento (45mila voti). L’anno successivo, alle Europee del  2014 –  ultima consultazione elettorale su scala nazionale – Fratelli d’Italia totalizzò il 3,7 per cento e rimase sotto la soglia del 4 per cento necessaria per ottenere dei seggi nel Parlamento Europeo.
Ma nella città di Roma il partito della Meloni ebbe il 5,3 per cento ( Forza Italia il 13,4 e la Lega 1,4). Da allora i sondaggi hanno dato in continua ascesa Fdi che, mediamente, oggi sembra attestarsi su una percentuale nazionale vicina al 5 per cento. Ma parliamo di sondaggi, non c’è stato finora alcun riscontro effettivo da parte degli elettori. Comunque, tirando prime somme, si può dire – in base ai dati più recenti (amministrative ed europee) – che la candidata Meloni parte da una dote elettorale del 5/6 per cento del suo partito in città, alla quale va aggiunto ciò che racimolerà la lista di Salvini: difficile prevedere a quanto  ammonterà, ma di certo non potrà essere molto significativa – la Lega a Roma ha tuttora una presenza debole- e di certo inferiore (di molto o poco?) al 5 per cento. Quindi Giorgia Meloni parte da una percentuale delle forze politiche che la sostengono – Fdi e Lega – inferiore al 10 per cento. Il che fa comprendere che le asticelle poste dal Corriere, nella interpretazione di Battista, sono del tutto irreali e – ci pare, ma possiamo sbagliare – pregiudizialmente ostili alla candidatura della presidente di Fratelli d’Italia. Un pizzico – ma solo un pizzico, per carità – squilibrato pro proprietario della Mondadori, a voler mettere un po’ di pepe nella minestra.

La vera prova: il braccio di ferro con Marchini e Berlusconi

In verità, la meta realistica dell’ex ministra della Gioventù – quella che la politica indica, anche al di là della sua stessa volontà – è superare Alfio Marchini (da solo alle scorse amministrative ebbe il 9,48%) che è appoggiato, oltre che dal suo movimento civico, da Berlusconi e dal suo partito, dai centristi di Area Popolare e dalle destre minori (Storace, Azione Nazionale). Il che significa, sul piano numerico, riuscire a raddoppiare la base elettorale di partenza. Consumata la rottura della vecchia alleanza di centrodestra – che l’ex premier dice di volere recuperare “dopo” – a Roma si confrontano due visioni: quella “centrista” sposata dell’ex Cavaliere il quale, tirato per la giacca da Alfano e Casini, punta su Marchini; e quella delle nuove destre di Salvini e Meloni, la quale ci ha messo la faccia, candidandosi in prima persona, pur dopo qualche errore e più di un’esitazione. L’umiliazione, ipotizzata da Battista, Berlusconi la subirebbe se dovesse perdere il braccio di ferro interno al centrodestra. In tal caso la Meloni – che un ruolo nazionale lo ha già – uscirebbe dal “minotarismo” dal quale “Piggì” la vede ancora limitata. Andare al ballottaggio o addirittura vincere e diventare sindaco di Roma, sono obiettivi molto difficili da raggiungere. Alla giovane leader può riuscire il colpaccio, ma col centrodestra diviso, è impresa obiettivamente proibitiva. Ma, basterà attendere poco per sapere se così sarà. E di chi è la responsabilità, se così non sarà.

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