Giugno 1977: al via Campo Hobbit, primo esperimento populista

12 Giu 2016 11:25 - di Redattore 54

Dei Campi Hobbit si è scritto e dibattuto moltissimo, sottolineandone la capacità di rottura antropologica e comportamentale rispetto al vecchio attivismo missino. Il primo Campo ebbe luogo a Montesarchio l’11 e il 12 giugno del 1977, trentanove anni fa, organizzato da Generoso Simeone, esponente della corrente Linea futura di Pino Rauti e direttore del periodico L’Alternativa. Vi era il richiamo al festival milanese del Parco Lambro e al “comunitarismo tribale” della sinistra radicale e soprattutto vi era la scelta di Tolkien, autore che poteva sottrarre i giovani alla “sindrome depressiva” del ghetto. Il raduno segnò inoltre il predominio del simbolo della croce celtica rispetto alla bandiera tricolore, circostanza che provocò una irritata circolare firmata dal segretario Giorgio Almirante contro quella “pericolosa” e “deviante” novità. Al primo Campo parteciparono 1500 giovani. I segnali di novità scaturiti da quell’esperienza non sfuggirono ad alcuni giornalisti, meno prigionieri del consueto pregiudizio antifascista.

Addirittura Mauro Bene di Repubblica giudica il Campo un primo esperimento di populismo messo in pratica dai giovani di destra che ora parlano apertamente un linguaggio di ribellismo moderno e non più ripiegato sul nostalgismo: “Parlano apertamente – scriveva – di rivoluzione, di lotta al sistema, alla disoccupazione, all’emarginazione giovanile, al modo di produzione capitalistico… non è detto che questo populismo esasperato, questo radicalismo dai contenuti reazionari sia destinato a non dare dei frutti”. Sul Roma gli faceva eco Stenio Solinas: “Questo mondo è tornato allo scoperto: abbandonando divise e bandiere, mettendo in un cantuccio Giovinezza e Faccetta Nera, così come i canti della Vandea e quelli della Renania, rifiutando l’abito borghese e la concezione del ragazzo di ‘buona famiglia’…”.

Sul Secolo d’Italia se ne occupò Pino Quartana (in un articolo del 29 giugno 1977) sostenendo che il Campo aveva fatto sintesi tra tre momenti importanti: quello psicologico, quello culturale e quello politico. Dal primo punto di vista c’era stata la riscoperta del valore comunitario, culturalmente erano venuti a galla temi nuovi come l’ambientalismo, le solitudini metropolitane, la vicinanza con altre forme di contestazione giovanile anti-sistema. Infine, da un punto di vista politico, il Campo aveva rappresentato un punto di riferimento per il “dover essere” dei giovani schierati sulla trincea dell’alternativa al sistema.

Marco Tarchi, figura egemone della Nuova Destra che nelle esperienze dei Campi Hobbit si è sempre riconosciuta, nel saggio La rivoluzione impossibile (Vallecchi), tira le somme di quell’esperienza e molto lucidamente sottolinea che di quelle ambizioni di allora poco e nulla si è tradotto in fatti concreti. Basti ripensare all’orgogliosa rivendicazione di Almirante che al XII congresso del Msi (1982, cinque anni dopo Montesarchio) risponde a Marco Pannella, tra gli applausi, “il fascismo è qui”. Eppure il fascino simbolico dei Campi sopravvive ed esplode nel 2002, anno della Tolkien-mania grazie al kolossal di Peter Jackson. Gli eredi politici di quell’esperimento, il movimento Azione Giovani che ha preso il posto dell’antico FdG,  ormai comodamente inseriti nel sistema di potere grazie al “tocco magico” di Silvio Berlusconi, possono recuperare quella memoria e farne orpello identitario da offrire alla curiosità mediatica.

Oggi viviamo una fase ancora diversa: la fine del ventennio berlusconiano e la crisi del capitalismo avanzato nell’Occidente ha ribaltato i parametri culturali. I giovani collocati a destra riscoprono il radicalismo del linguaggio nazionalista, antitetico all’idea evoliana che la patria è lì dove si combatte per le proprie idee, incompatibile con l’idea inclusiva della Compagnia di Tolkien che racchiude “razze” diverse (umani, hobbit, elfi, nani e un mago…). Ed esprimono il loro ribellismo magari nel saluto romano, rallentando quel processo di storicizzazione del fascismo che nel 1977 era appena agli inizi e che oggi sarebbe del tutto concluso se certe tentazioni all’autoghettizzazione non prendessero il sopravvento sulla politica come dialogo e comprensione dell’altro da sé (ennesima eredità dei Campi Hobbit). Inoltre, l’agitare la bandiera della patria come rifugio identitario dinanzi al mercatismo o come raccoforte valoriale messa in discussione dalla pressione dei migranti, fa tornare in auge l’idea del presente come “decadenza” contro la quale occorre battersi e non come occasione, opportunità, sfida con cui misurarsi senza complessi di inferiorità. Torna insomma la tentazione della “torre d’avorio”, la cui demolizione invece  i partecipanti ai Campi avevano come primo obiettivo.

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