Vent’anni dopo: Renzo De Felice, il fascismo fuori dagli schemi

25 Mag 2016 15:14 - di Mario Bozzi Sentieri

A vent’anni dalla prematura scomparsa di Renzo De Felice, avvenuta il 25 maggio 1996, che cosa unisce la mole delle sue ricerche, la sua originalità interpretativa, la sua capacità di “fare scuola”? Per comprendere il valore dell’eredità defeliciana bisogna ricordare quali erano, alla metà degli Anni Sessanta del ‘900,  le interpretazioni correnti del fascismo.

C’era l’idea crociana del Ventennio  inteso  come “parentesi” e come  “malattia morale”; c’era quella che vedeva nel fascismo il risultato di una “fase di assestamento” dei processi  di industrializzazione;  quella gobettinana che individuava nel fascismo  un prodotto degli antichi mali d’Italia e  poi l’interpretazione comunista, che risolveva tutto nell’idea dell’arma estrema  al servizio del capitalismo, sul punto di soccombere sotto la spinta della vittoria proletaria. E  c’era il nostalgismo, con la memorialistica saloina e le polemiche sui “voltagabbana”, diviso tra socializzazione e richiami all’ordine.

Rispetto a questo quadro d’assieme De Felice  ruppe con tutte le interpretazioni correnti usando i documenti, facendo parlare i fatti, comparando, studiando veramente. Il risultato più immediato fu “un libro serio, documentato, ponderato, scritto, per quanto possibile, senza pregiudizio” – come ebbe a riconoscere, in un articolo, pubblicato dal Secolo d’Italia, nel 1965,  uno studioso attento, ma  anticonformista, Adriano Romualdi, che vide subito nell’opera di De Felice (e si era appena al primo volume) una “prima pietra per la ricostruzione della viva immagine di Mussolini”, fino ad allora schiacciata nell’incomprensione:    “Da una parte – scrive Romualdi – ci sono la ingiuria, la diffamazione, la calunnia contro un avversario la cui ombra non dà pace e tregua. Dall’altra la patetica e casalinga rievocazione dei fedeli che rischia di deformare in una oleografia borghese la personalità del più spregiudicato rivoluzionario della storia d’Italia”.

Da quel 1965 l’impegno di Renzo De Felice non ebbe né tentennamenti, né cadute di stile

Nessuna voglia di “riabilitare” – sia ben chiaro –  come lo accusarono subito di volere fare i rappresentanti dell’accademismo antifascista. “La mia preoccupazione – disse in occasione della contestatissima “Intervista”, rilasciata a Michael A. Ledeen ed uscita nel 1975 –   è quella di capire il fascismo, anche se qualcuno obbietta che così c’è il rischio di capirlo troppo”. Un’ovvietà – se vogliamo – dal punto di vista di una corretta, cioè libera, interpretazione storica. Un’eresia per il contesto in cui De Felice si trovò ad operare. Un contesto  che male sopportava  l’idea del  Mussolini “rivoluzionario” (titolo del primo volume della monumentale biografia),  trovando via via  scandalosa:  la matrice giacobina, mazziniana e sindacal-rivoluzionaria del fascismo delle origini;  l’idea del “consenso” tributato al fascismo dagli italiani (laddove la vulgata corrente aveva sempre parlato di un regime violento, che si reggeva sulla forza);  l’aver sottolineato il grande impulso dato dal regime fascista alla modernizzazione nazionale;  la “storiografia afascista” ed il “qualunquismo storiografico” di De Felice.

Contestato perfino all’interno della sua Università, il professore continuò nel suo impegno, affiancando alla ricerca storica interventi di taglio più spiccatamente “politico”, come l’intervista, rilasciata, nel 1987, a Giuliano Ferrara e pubblicata da il “Corriere della Sera”, nella quale le norme contro il fascismo, contenute nella Costituzione, erano definite “grottesche” e quindi da abolire o come il libro-intervista “Rosso e Nero” con Pasquale Chessa, pubblicato nel 1995, in cui veniva smontata la “baracca resistenziale”, ivi compresa la retorica sulla partecipazione popolare alla “Guerra di liberazione”. Il risultato di questo lavorio fu che con la sua opera De Felice riconsegnò il fascismo alla Storia dell’Italia, costringendo tutti, a sinistra e a destra, ad uscire dal tunnel delle incomprensioni e della retorica di parte. Non a caso, nel 1976, uscì l’ “Intervista sull’antifascismo” di Giorgio Amendola, nella quale lo storico dirigente del Pci invitava ad una rilettura critica dell’antifascismo, in rapporto alla complessità  del suo “doppio”, il fascismo, al suo essere – per usare la definizione defeliciana – regime e movimento, coacervo complesso di culture diverse, “blocco di forze  eterogenee”. Sul versante opposto, sempre nel 1976, sono Pino Rauti e Rutilio Sermonti a dare alle stampe una  “Storia del fascismo”, in sei volumi, percorsa dall’idea di superare la distinzione ideologica del fascismo come fenomeno “di destra” ovvero “di sinistra”.

La consapevolezza di fondo, a vent’anni dalla scomparsa dello Storico,  è che dopo De Felice non ci può  più essere spazio per la retorica di parte, sia di matrice “neofascista” che “antifascista”. Bisogna necessariamente  continuare a studiare e  a capire.  Tanto più oggi, allorquando  l’emergere di nuovi scenari  politici e culturali conferma quanto diceva lo stesso De Felice, a chiusura dell’ “Intervista sul fascismo” a Ledeen,  e cioè che solo la comprensione del passato può aiutarci a comprendere la cronaca e la politica odierna.

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