Pound, Jim Morrison e gli altri: un percorso per capire il Novecento

24 Apr 2016 11:00 - di Riccardo Arbusti

“Le parole sono importanti” diceva in un suo celebre film Nanni Moretti. “Evidentemente – aggiunge Miro Renzaglia – le parole hanno un certo peso. In qualche caso, forse, hanno più peso addirittura degli atti, dei fatti e dei misfatti che la storia ci tramanda. Dipende da chi possiede, in maniera somma, il dono della parola e da come lo gestisce nei confronti dei dogmi imperanti nell’epoca in cui sono pronunciate…”. Una dichiarazione impegnativa al punto che il tema è il cuore dell’ultimo libro di Renzaglia – La parola a Ezra Pound e altre maschere d’autore (edizioni Circolo Proudhon, pp. 183, euro 13,50 – in cui l’elemento delle parole si accompagna a quello delle maschere, il termine in cui nell’etimologia latina si indicava la maschera teatrale indossata dagli attori per-sonare (per intensificare) la propria voce (e quindi la propria parola) e farla ascoltare agli spettatori più lontani dal palcoscenico. Da cui l’uso occidentale di chiamare “persona” tutti gli uomini, e in particolare coloro che svolgono più o meno consapevolmente un ruolo pubblico nel mondo.

Renzaglia, partendo da Ezra Pound, sommo poeta e “miglior fabbro” del Novecento, propone allora 28 ritratti letterari che nel loro insieme costituiscono un percorso e un attraversamento del secolo scorso. Si va da figure di frontiera come Jim Morrison e Pier Paolo Pasolini a poeti come Eugenio Montale e Elio Pagliarani, da scrittori come Albert Camus, Céline, Hemingway e Flaiano a filosofi come Michelstaedter, Julius Evola e Guy Debord, da uomini di teatro come Ettore Petrolini e Carmelo Bene a politici come Enrico Berlinguer, Nicolino Bombacci, Bettino Craxi e Gianfranco Fini, da scrittori contemporanei come Antonio Pennacchi e Fulvio Abbate a figure solo apparentemente contraddittorie tra loro come Elvio Fachinelli, Berto Ricci, Indro Montanelli o Lucio Battisti.

Sul metodo di scrittura vale quanto Renzaglia annota in premessa del testo teatrale d’avvio del libro, in cui ricostruisce drammaturgicamente un processo a Pound: “Avrei dovuto citare le fonti e gli indirizzi bibliografici. Avrei dovuto. Ma non ne avevo voglia: non sono uno storico e dell’apparato scientifico, scusate, me ne frego. Preferisco chiedere al lettore di accreditarmi della sua fiducia riguardo alla fedele trascrizione delle parole…”. E ci risiamo: quello che conta, nel libro, è infatti l’uso poetico e intellettuale delle parole, la loro evocazione di una serie di maschere e di persone attraverso le quali è possibile interrogare e capire forse anche qualcosa della parabola del Novecento e del tempo presente. Così come il filo rosso di tutte le biografie potrebbe essere rappresentato dalla frase di Montanelli con cui si conclude il ritratto che Renzaglia fa del grande giornalista: “L’unico consiglio che mi sento di dare, e che regolarmente do, ai giovani è questo: combattete per quello in cui credete. Perderete, come le ho perse io, tutte le battaglie. Ma una sola potrete vincerla: quella che s’ingaggia ogni mattina, davanti allo specchio”.

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