Dopo Berlusconi, anche Romano Prodi dice no alla guerra in Libia

6 Mar 2016 8:30 - di Redazione
Sfilata dell'esercito libico

“Già da oltre un mese il governo unitario doveva essere pronto ma la sua composizione è stata sempre rinviata da tensioni che fino ad ora nessuno è stato in grado di comporre, soprattutto per il permanere delle divergenze fra il primo ministro designato, Payer al Serrai e il suo avversario politico, il potente generale Khalifa Haftar. È tuttavia doveroso aggiungere che questo governo unitario deve essere anche autorevole, obiettivo che può essere raggiunto solo se gli attuali frammentati e quasi inconsistenti parlamenti avranno sufficiente autorità e se non permarràl’opposizione di alcune delle principali tribù che controllano parti fondamentali del Paese”, scrive Romano Prodi su “Il Mattino“.

Senza un governo vero a Tripoli, l’intervento militare non serve

Chiunque si presenti con un esercito in terra libica senza che si verifichino queste condizioni otterrà solo il risultato di riunire contro di sé tutte le fazioni, anche quelle che si combattono ferocemente tra di loro. Nei giorni scorsi è stato deciso, in conseguenza di un decreto governativo del recente febbraio, di inviare un piccolo nucleo di corpi speciali non sotto il comando dell’esercito ma dei servizi di intelligence (servizi segreti). Immagino che questa decisione sia stata presa quanto meno per sorvegliare quanto già da qualche tempo stanno facendo francesi, inglesi e americani in terra libica, dato che coloro che hanno preso l’iniziativa di una guerra nella quale ci siamo incoscientemente ed imprudentemente infilati, mantengono nel Paese una rete informativa capillare e accuratamente protetta da piccoli corpi militari specializzati.

Interventire in Libia senza un governo a Tripoli sarebbe un rischio enorme

Il problema è ora quello di non essere progressivamente spinti ad aumentare in modo sotterraneo questa presenza fino a trasformarla in una forza militare sempre più corposa, anche per rispondere al continuo invito dei nostri alleati (a partire dagli Stati Uniti) perché l’Italia assuma un ruolo di guida di una missione che si sa dove comincia ma non si sa dove finisce. Tanto è vero che si parla già del numero dei soldati italiani da impegnare, anche se le cifre di questo impegno ballano continuamente fra le tre e le cinquemila unità. Attenzione quindi di non essere progressivamente trascinati in un ruolo di guida, che pure è stato incautamente richiesto da parte nostra. Quest’ipotesi è comprensibilmente spinta dall’amministrazione americana, data l’oggettiva preoccupazione per l’estensione del terrorismo in un’area delicata come la Libia e data l’impossibilità politica di assumere la guida di una guerra di terra in qualsiasiparte del mondo. L’opinione pubblica americana non è infatti disposta, dopo l’Iraq e l’Afghanistan, ad assistere al ritorno di morti o di feriti da qualsivoglia conflitto e il presidente Obama non può certo sfidare questo sentimento durante una campagna elettorale che è già in corso. Quanto alla Francia e alla Gran Bretagna la coscienza dell’errore compiuto attaccando la Libia nel 2011, anche se mai ufficialmente riconosciuto, è troppo presente nelle loro opinioni pubbliche perché questi due paesi possano assumersi il ruolo di guida. Resta quindi l’Italia come possibile responsabile di un compito che risulta impossibile se esso non viene limitato all’aiuto per la ricostruzione di un paese che richieda il nostro intervento in modo condiviso e unitario.

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