Il regista di Checco Zalone: “Io di sinistra, ma detesto i radical chic”

11 Gen 2016 8:56 - di Redazione

Gennaro Nunziante è il regista, l’inventore dello zalonismo. «Sono un suo amico, un suo complice, semmai». Tutti si industriano per dare interpretazioni politiche del vostro film, tu sei l’unico che puoi fornire quella autentica. «In questi giorni sui giornali leggo articoli ridicoli. Credo che molti di quelli che scrivono non capiscano nulla del nostro film…». Si scrive sia che “Quo Vado” è un film iperliberista, a favore dei licenziamenti, sia il contrario. «Ma “Quo Vado” in primo luogo è una commedia. E poi è un film sulla… riconciliazione necessaria». Riconciliazione tra chi? «Fra tutti: l’Italia di oggi è il Paese più diviso del mondo, lo hai notato? Eravamo divisi tra destra e sinistra, adesso lo siamo fra destra, sinistra e grillini. Ma siamo divisi anche tra nord e sud, fra ricchi e poveri, sempre di più. E soprattutto fra giovani e vecchi, in maniera drammatica: ti basta?».

Gennaro Nunziante è l’uomo che ha scoperto Luca Medici, alias Checco Zalone.

Classe 1963, cresce in un quartiere popolare di Bari, in una famiglia operaia, e vive sulla sua pelle da bambino – il trauma della perdita del leggendario “posto fisso” (del padre). Da ragazzo costituisce una culla del cabaret a partire da un locale, “La dolce vita”, aperto quasi per gioco con un gruppo di amici. Poi inizia a lavorare a Telebari, creando fiction satiriche di incredibile successo. Di lì il grande salto con TeleNorba, dove per la prima volta arrivano mezzi per lavorare (e dove Gennaro incontra la donna della sua vita). Un giorno, durante un provino in cui un giovane artista si propone come parodiatore di cantanti neomelodici, il grande incontro.

Tra Nunziante e Zaione è subito folgorazione, che dura fino ad oggi.

«Ho imparato molto presto a riconoscere e distinguere la vera sinistra da chi fa finta: i radical chic che sinceramente detesto». Padre operaio, sindacalista, nasci nel cuore della sinistra più classica. «La mia strada faceva angolo con via Principe Amedeo, dove c’era la sezione del Pci. Sono cresciuto la più classica e generosa militanza, si andava a diffondere il giornale, si discuteva. Quel mondo è finito, scomparso dalla mattina alla sera, con la sciagura della scissione, quando sono nati Pds e Rifondazione», rivela a “Libero”. Da ragazzo hai avuto anche simpatie extraparlamentari… «Avevo un gruppo di amici carissimi nell’area più ribelle degli anni Settanta. Del primo voto quasi mi vergogno, tè lo voglio raccontare: l’ho dato a Toni Negri». Il leader di Autonomia Operaia? «Proprio lui: era in carcere per il processo 7 aprile, alle politiche del 1983 venne candidato dai Radicali. Marco Panella diede vita alla più riuscita delle sue campagne, “vota per liberare il prigioniero”». E ti convinse. «Anche con il mio voto, Negri uscì dal carcere da deputato, e fuggì in Francia. Fu una delusione drammatica». L’ultimo voto? «Al Pd di Bersani, che considero una persona seria. Lo apprezzavo molto, un altro che a suo modo voleva unire, e non dividere. Ti devo dire che consideravo folle anche chi, per combattere Berlusconi, sputtanava l’Italia all’estero».

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