La cultura di destra può ripartire? Ad Atreju si discute il come e il quando

26 Set 2015 16:12 - di Romana Fabiani

La politica ascolta la cultura. Oltre ai tempi “maledetti” dei talk show  e alla narrazione usa e getta del web esiste un percorso comune nell’arcipelago accidentato della destra culturale da portare in dote alla politica? È la domanda che ha riunito nella sala Boccioni dell’officina di Atreju (creative factory) un nutrito drappello di teste pensanti (non chiamateli intellettuali), tra scrittori, giornalisti e opinionisti di area. In tanti (Fabio Torriero, Marco Valle, Mauro Mazza, Mario Bozzi Sentieri, Aldo Di Lello, Gian Micalessin, Massimo Magliaro, Michele De Feudis, Enrico Nistri, Renato Besana, Andrea Delmastro) per riprendere un filo interrotto tra diaspore, sospetti e treni perduti. «Di Patria in figli: la ripartenza».

Cultura e politica a destra

C’è una destra diffusa molto più ampia del suo bacino elettorale. È possibile recuperare questa frattura, dopo le tante  occasioni perdute nei venti anni di governo di centrodestra? È il primo spunto di riflessione offerto dal moderatore di Fratelli d’Italia, Andrea Delmastro, prima dell’intervento di Adolfo Urso che punta i riflettori sulla sfida europea. «Il Vecchio mondo è morto, oggi la Russia sta con Israele e gli Usa aprono all’Iran… Oggi conta più un tweet efficace di un’organizzazione di partito, basta pensare che un ragazzetto esperto di web ha distrutto il Partito comunista italiano». Immancabile uno sguardo sulla fondazione Alleanza nazionale, a una settimana dalla sua prima assemblea degli iscritti, croce e delizia di tutti gli interventi. Uno strumento che per vocazione dovrebbe rappresentare una fucina di idee e non un museo del passato o, peggio ancora, il terreno di scontro tra vecchi notabili («oggi – dice Besana – è ferma alla cultura del cordoglio»;  «Possibile che non ci sia niente di vivo? Solo rivisitazioni di morti e anniversari? Con tutto il rispetto per il sangue versato che deve essere rispettato e non usato» provoca Marco Valle).

Tempo di matricidio

Fabio Torriero traccia la griglia di partenza a cominciare dallo stato di salute della destra perduta, anzi “affogata”, in bilico tra il museo dei desideri, il renzismo di ritorno (un po’ Berlusconi, un po’ Vanna Marchi) e la caricatura «delle nostre idee» rappresentata da Matteo Salvini. Dopo il parricidio – dice – è tempo di matricidio. Uscire dalla categorie del 900 di destra/sinistra/ centro, mettere alle porte i vecchi arnesi (che facciano i tutor) e affrontare la società radicale di massa perché la dialettica oggi è tra “alto e basso”, tra casta e popolo. Al partito unico della nazione (partito boa) – taglia corto –  si risponde con uno schieramento tematico che recuperi il legame indennitario spezzato dalla società Frankestein, dal pensiero gender che contrappone una umanità falsa all’umanità vera.

Immagini e simboli

“Siamo la cassetta degli attrezzi della politica e la fondazione dovrebbe essere il garage degli attrezzi”, è il filo conduttore del dibattito che non si sottrae a una buona dose di autocritica per lo straordinario patrimonio smarrito nei meandri della politica di palazzo.  Gian Micalessin, giornalista e inviato di guerra, va giù pesante sul vuoto culturale di una destra asfittica e autoreferenziale. «La politica (e la cultura) si fa con le immagini e i simboli,» dice ricordando la straordinaria avventura condivisa in Afghanistan con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo. Fotografare, raccontare, testimoniare. La missione della politica è conquistare cuori e menti con immagini vive, non con simposi e decaloghi. «Dove sta il nostro Che Guevara? Perché Almerigo non c’è? Perché il suo volto non è stampato sulle nostre magliette?». Mauro Mazza si concentra sui “valori non negoziabili”. «Una destra moderna, capace, responsabile deve fare saper ricostruire un’identità sui temi forti. La politica non è astrazione, è un luogo dove impastare le mani». Il ruolo della Fondazione An? «Può essere un valido strumento, speriamo che non finisca in procura», dice Mazza affrontando l’endemico problema della destra politica, lo scarto tra la popolarità dei sui leader e il peso elettorale. «Giorgia è un grande leader, gli ultimi sondaggi la danno poco sotto Renzi, alla pari di Salvini, eppure Fratelli d’Italia non supera il 4 per cento. Lo stesso è successo con il Msi di Almirante, piazze piene e urne vuote si diceva, lo stesso è accaduto con Fini e An».

Il mea culpa necessario

Ogni tanto, per dirla con Beppe Niccolai, dobbiamo farci del male. E Marco Valle non si sottrae. «Basta riaprire l’album di famiglia per capire come, dagli anni Cinquanta in poi, le politiche culturali delle destre — dall’Msi al Pdl — siano state poca cosa: un susseguirsi di diaspore, delusioni, intrecciate a promesse mancate, occasioni perdute e tanta ottusità». Per decenni una piccola nomenklatura di parlamentari ha operato una selezione alla rovescia: fuori le intelligenze, in alto i cretini, più facili da controllare. L’autore di Confini e conflitti ricorda quando il Msi degli anni ’70 incoronò Armando Plebe a “faro culturale” della destra italiana ed espulse Marco Tarchi». Nessuna nostalgia per il passato, sguardo al futuro con la giusta dose di eresia. E al diavolo torcicollo e scorciatoie: basta con le fiamme e le ruspe. “E smettiamola – dice Valle tra gli applausi – di considerare Salvini il nuovo Codreanu». Aldo Di Lello, che si definisce un artigiano della penna, punta i riflettori sul compito di una destra culturale all’altezza delle sfide. «La sua missione non è solo quella di fornire suggerimenti e piattaforme programmatiche ma di aiutare la politica a ridefinire il racconto italiano, a tessere la narrazione di un’identità nazionale, la destra ha bisogno di inventare altre parole che competano con il “racconto” di Renzi, di Grillo e di Salvini».

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