Non solo Berlusconi. Lincoln abolì la schiavitù corrompendo i deputati

11 Lug 2015 13:19 - di Lando Chiarini

Alla luce dei tre anni inflitti in primo grado a Berlusconi – giudicato “colpevole” di aver comprato un manipolo di senatori per disarcionare Prodi dal suo traballante governo – è presumibile che analoga pena il tribunale di Napoli  l’avrebbe comminata persino ad un mostro sacro della democrazia come Abramo Lincoln, il presidente cui riuscì di abrogare lo schiavismo “convincendo” molti membri del Congresso a votare il XIII emendamento alla Costituzione in cambio di posti pubblici, prebende ed altre utilità.
Benvenuti in democrazia, il “peggior sistema di governo ad eccezione di tutti gli altri” nel salace giudizio di Winston Churchill, un altro che pure s’intendeva di maggioranze parlamentari. Storie vecchie, si dirà, condizionate da visioni d’altri tempi. Non fu, del resto, un illuminato procuratore milanese a teorizzare, nella fase più acuta dello spaccio del “manipulitismo” trionfante,  l’avvento del XXI secolo come quello dell’egemonia del potere giudiziario dopo che il XIX ed il XX lo erano stati, rispettivamente, per il legislativo e l’esecutivo? Parole profetiche plasticamente confermate dalla sentenza napoletana, a ulteriore dimostrazione che per non pochi togati la tripartizione dei poteri è ormai solo un’anticaglia.

Costituzione sempre più a rischio incursioni

Di sicuro giace nel ripostiglio degli oggetti smarriti l’inviolabilità dei parlamentari, concetto stressato nel corso degli anni da abusi e soprusi e poi sparito dalla Costituzione, nel 1992, per volontà degli stessi rappresentanti del popolo ingenuamente speranzosi di barattare la rinuncia all’istituto dell’autorizzazione a procedere con una duratura pax giudiziaria. Pia illusione. Anzi, fu proprio quella rinuncia, vile, a mettere in moto il progressivo spostamento del baricentro della sovranità dal Parlamento verso poteri irresponsabili, nel senso che non rispondono a nessuno del proprio operato. E poiché la politica non conosce vaccini ma solo droghe, quella scelta scellerata finì fatalmente per incoraggiare le frange politicizzate della magistratura a esercitare una sempre più asfissiante funzione di sindacato sulla vita e l’attività degli organi dello Stato.
Sulla scorta di tale premessa, davvero non stupisce se l’articolo 67 (divieto di vincolo di mandato) della nostra Costituzione ed il primo comma di quello successivo (insindacabilità dei voti e delle opinioni) sembrano avviati a soccombere sotto i colpi di un lettura criminale di dinamiche politiche, censurabili semmai nelle urne, di certo non nei palazzi di giustizia. Se così non fosse stato per decenni, le nostre già affollate galere ancora traboccherebbero di politici voltagabbana, dei cui andirivieni sono ricchi gli annali di storia patria. Un vizietto talmente diffuso da costringere gli storici dell’Italia post-unitaria a coniare il termine “trasformismo” per indicare il fenomeno delle maggioranze variabili. Era l’epoca dei notabili e del suffragio di censo. Se ne uscì (e mai del tutto) non per l’attivismo dei procuratori del Re ma per la nascita dei partiti organizzati e a forte trazione ideologica. Oggi che i partiti sono semplici simulacri e le ideologie tragicamente tramontate, il trasformismo ha ripreso l’antica lena, per giunta involgarito dalla sostituzione degli antichi notabili con un ceto politico – non tutto, fortunatamente – ai limiti dell’analfabetismo e a dir poco famelico. Ma neppure queste aggravanti etiche ed estetiche autorizzano il potere giudiziario a intervenire sulla decisione, barattata o meno importa poco, di far cadere un governo.

Berlusconi ha solo tolto la spina ad un governo agonizzante

Chi può infatti escludere che quel mercimonio sia stato utile o dannoso all’interesse generale? Bisogna rendersi conto che è l’impalpabilità degli arcana della politica a rendere impossibile il loro assoggettamento ad interpretazioni criminali. I parlamentari non sono pubblici dipendenti né possono esservi equiparati su questioni strettamente imparentate con la ragion di Stato, rispetto alla quale la nozione di atto contrario ai doveri d’ufficio scolorisce fino a dissolversi. Abramo Lincoln abolì la schiavitù grazie alla “corruzione” di molti deputati. Molto più modestamente, Silvio Berlusconi liberò l’Italia da un governo rissoso e inconcludente che riusciva a reggersi solo per il voto dei senatori a vita. Entrambi hanno creduto di servire l’interesse generale facendo leva proprio sull’assenza del vincolo di mandato, cioè sul fatto che l’eletto risponde esclusivamente alla propria coscienza, che ce l’abbia o meno, e buona o cattiva che sia. E la coscienza non è l’anfratto più comodo per chi è chiamato a scovare corrotti e corruttori. Di certo è luogo più adatto a ricevere la comprensione di Dio che a subire le scorribande dei magistrati.

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