A dirla con De Andrè: «Angelino s’indigna, s’impegna poi getta la spugna»

16 Giu 2015 17:48 - di Niccolo Silvestri

A guardare Angelino Alfano mentre s’ingrugna nel “volto dell’arme” e soprattutto a sentirlo mentre lancia ultimatum all’Europa sull’immigrazione, scatta in mente come una molla  la mitica don Raffaè cantata da Fabrizio De Andrè. Un testo del ’90, quando Alfano probabilmente frequentava ancora il liceo, ma che sembra scritto apposta per lui perché nessuno come lui «…si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità» e perciò nessuno più di lui può assurgere con altrettanta sublime strafottenza a metafora dello Stato bersagliato dall’amaro sarcasmo del secondino di Poggioreale.

Il ministro e il brano di Fabrizio De Andrè

Il nostro ministro di polizia è davvero unico nel suo genere e non ha praticamente rivali nel far seguire ai più fieri e roboanti propositi le più imbarazzanti ritirate. Facile per un occhio profano scambiarlo per il solito miles gloriosus, uno dei tanti spacciatori di rodomontate con retromarcia incorporata di cui abbonda la nostra politica. Ma sarebbe fargli torto. Alfano è qualcosa di più e di meglio di un volgare spaccone o di un gaffeur da salotto: è l’epifania stessa della figuraccia, la personificazione della “magra”, la summa teologica della cantonata, da lui originalmente intesa non come effetto scornante di un’azione prodotta bensì come irripetibile occasione per rivendicare orgogliosamente tutto e il suo esatto contrario. Laddove ogni comune mortale prenderebbe a barcamenarsi nel tentativo di addolcire le proprie responsabilità, il Nostro, una volta rimediata la topica, non solo non barcolla ma addirittura chiama banco e rivendica tutto – il detto e il fatto, l’annuncio e l’esito, il prima e il dopo – nonostante l’uno sia l’opposto dell’altro. Ricordate? Aveva promesso barricate in favore delle preferenze e ora si gloria del nuovo Italicum coi capilista bloccati. Sul Quirinale si diceva pronto ad immolarsi per la compattezza del centrodestra ma non appena Renzi lo ha richiamato all’ordine, ha rivendicato come un successo personale l’elezione di Mattarella. Stesse performance come ministro dell’Interno: se la polizia alza il manganello contro un black-bloc, corre dritto in tv a rivendicare la fermezza delle istituzioni; se invece sono i black-bloc a mettere a ferro e a fuoco paesi e città ci corre lo stesso e va ad esaltare lo spirito democratico delle forze dell’ordine. Il ridicolo, insomma, è il suo mestiere e la gomma è l’abito che preferibilmente indossa nell’esercizio delle sue funzioni.

Ma con ogni probabilità il meglio deve ancora venire e si può scommettere che il vero divertimento ci sarà alle prossime elezioni politiche con la definizione delle alleanze. Sembra già di vederlo, il prode Angelino, fronte seriosa corrugata e petto-in-fuori-pancia-in-dentro, giurare che mai e poi mai unirà il destino degli elettori moderati a quelli della Lega, salvo poi pensare solo al suo, di destino, e indossare, ove richiesta, anche la camicia verde d’ordinanza. Del resto, è ben nota la sua insopprimibile vocazione al martirio istituzionale. Che si tratti ieri di Berlusconi, di Monti, di Letta, oggi di Renzi o di Salvini domani, fa poca differenza. Come i diamanti della pubblicità per gli innamorati, così per Angelino una poltrona è per sempre.

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