Terrorismo, parla il presunto capo di al Qaeda. Ecco tutte le ambiguità

29 Apr 2015 13:02 - di Redattore 89
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Mostra tutta la difficoltà della lotta al terrorismo in Italia l’intervista che Repubblica ha fatto a Muhammad Hafiz Zulkifal, il 43enne imam di Bergamo arrestato qualche giorno fa per diverse ipotesi di reato, tutte riconducibili al suo presunto ruolo di capo di al Qaeda in Italia. Zulkifal è accusato di costituzione, organizzazione e finanziamento di associazione terroristica internazionale, di trasporto di valuta all’estero e anche di essere il mandante di un duplice omicidio. A incastrarlo ci sono le intercettazioni, ma lui si difende parlando di «equivoco» ed errori di traduzione, perché l’unica «lingua conosciuta dall’interprete della Procura di Cagliari è il pashtu».

La difesa gioca con le parole?

Zulkifal, ora detenuto in isolamento, risponde attraverso il suo legale, Omar Massimo Hegazi, un giovane avvocato italo egiziano di Bergamo, specializzato in diritto societario e dell’immigrazione, attivo nel campo dei diritti civili, già candidato con la lista Gori alle comunali della sua città. Per ogni contestazione viene fornita una risposta plausibile, con uno slittamento dal piano dei fatti a quello delle parole. E sono parole non solo straniere, ma legate al loro specifico significato teologico e dottrinale, interpretate in base al modo in cui vengono pronunciate, alla luce di un Corano che forse ancora non conosciamo a sufficienza. In una inchiesta che molto deve alle intercettazioni, in fondo, appare naturale che la linea difensiva sia quella. E che, di fronte a certe intercettazioni che appaiano inequivocabili, indagato e avvocato mirino a ribaltare il tavolo, magari giocando sulla nostra ignoranza.

Le risposte dell’imam

Nelle sue telefonate Zulkifal parlava di al Qaeda, «ma al Qaeda in arabo – è la difesa – significa “la base”. Ha un riferimento letterario diretto a una sorta di libro-bigino che spiega la corretta interpretazione del Corano e la giusta fonìa delle parole del Profeta. Una fonìa differente può modificare il significato delle parole». «In arabo al Qaeda – prosegue Zulkifal, per il tramite del suo avvocato – non ha il significato che gli è stato dato 15 anni fa dai media occidentali, lo stesso Bin Laden non ha mai usato il termine al Qaeda». Bin Laden: il cronista ricorda all’imam di aver detto che era stato lo sceicco a mandarlo in Italia, «che eravate come fratelli». «Anche qui – è la risposta che l’avvocato fornisce per Zulkifal – c’è un equivoco sul nome. Parlavo di Usama, che è un mio amico ed è un mio amico fraterno. Nel mondo islamico siamo tutti fratelli». La jihad? «Un sacrificio quotidiano verso il Corano. Che è sempre pace e amore. È adesione radicale ai dettami del Corano, ma non c’è violenza». I soldi? «Legati alla mia duplice attività di imam e mediatore finanziario e trader», sostiene Zulkifal, che parla del sistema di collette per mandare soldi all’estero, la hawala, come di un fatto naturale nella comunità islamica, quindi niente affatto losco: «È prescritta dalla legge islamica», «è a tasso zero», «i soldi raccolti tra la comunità servono per la costruzione della moschea, i pellegrinaggi, gli aiuti alle famiglie povere, i bambini». Parlava di shahidmartiri? «Per me significa “testimoni di fede”. Anche io sono un shahid». Quanto al duplice omicidio, «mai ordinato di uccidere nessuno». «Forse mi hanno parlato di una donna adultera e ho commentato che questo la legge islamica non lo accetta», si giustifica l’imam, che dell’Isis dice: «Non lo conosco, so solo che sta facendo del male a molta gente».

Una intervista destabilizzante

Insomma, tutto, in questa lunga intervista, è teso a dire che quelle parole intercettate che appaiono così nette, in realtà, sono tutt’altro che inequivocabili e che non possiamo avere certezza di ciò che Zulkifal si dicesse con i suoi sodali. «I terroristi si nascondo e si coprono la faccia. Io non mi sono mai coperto, mai cambiato il modo di vestirmi, mai tagliato la barba. Se fossi un terrorista mi sarei camuffato in mille modi. E non avrei usato il mio telefono e il mio pc», è la conclusione del ragionamento, che però, nelle pieghe di questa linea difensiva, fa venire in mente quel vecchio detto secondo cui il modo migliore per nascondere una cosa è tenerla in bella vista. È dunque una conclusione che risulta quanto mai destabilizzante e che ci dice che, se vorremo davvero vincere contro il terrorismo e non solo contro i singoli terroristi, dovremo farci trovare più preparati di come siamo ora, per saper distinguere da noi tra chi si nasconde in bella vista e chi non ha nulla da nascondere.

 

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