Populismo giudiziario: quando le toghe ammiccano alla pubblica opinione

22 Apr 2015 18:11 - di Niccolo Silvestri

Si scrive Anm ma di potrebbe pronunciare Pd, Ncd, Fi o – perché no? – FdI o M5S. Non importa, scegliete voi purché di partito si tratti dal momento che il resoconto della recente assemblea dell’Associazione nazionale magistrati fattane da Liana Milella su un giornale insospettabile come Repubblica ricalca in tutto e per tutto quella di una fazione politica. Stesse divisioni, stesse tensioni, stesse dinamiche. Persino stesso linguaggio. Leggere, per conferma, il virgolettato attribuito dalla cronista ad un pm milanese, Luca Poniz, rimasto particolarmente impressionato dal «gelo della gente e di una città che non si è stretta intorno alla giurisdizione» in occasione dei funerali delle tre vittime – tra cui un giudice – della folle strage consumata all’interno del Palazzo di giustizia.

Il pm e il «gelo della gente» ai funerali del giudice ucciso a Milano

Una recriminazione, questa di Poniz, dettata sì dall’amarezza per la morte cruenta ed ingiusta di un collega ma al tempo stesso rivelatrice della tendenza di alcuni settori della magistratura a cercare la sintonizzazione con l’opinione pubblica. Esercizio a dir poco rischioso per la tenuta complessiva delle istituzioni: la ricerca del consenso è infatti affare esclusivo dei leader politici (ai quali molte volte è paradossalmente contestata attraverso discutibili iniziative giudiziarie). Mai – e per nessun motivo – vi si può piegare un ordine dello Stato, cui per altro si accede solo per pubblico concorso e ai cui membri è tuttora richiesto il dovere dell’imparzialità.

Il populismo giudiziario dei Di Pietro e degli Ingroia

Ma tant’è: il populismo giudiziario è alimentato dal suo gemello politico, a sua volta calato a mo’ di grottesca maschera su un Parlamento senza attributi che pur di tenersi a galla fa finta di credere che la corruzione si estirpi per decreto o che regolamentare l’abuso delle intercettazioni sia solo un espediente per depotenziare la lotta alla mafia. È un cortocircuito senza fine: i politici commentano le sentenze e la magistratura critica le leggi. Però le prime andrebbero eseguite e le seconde rispettate. Ma non è l’unica anomalia italica. In tutto il mondo civile lo sciopero delle toghe è qualcosa di inaudito, da noi rappresenta un’eventualità tutt’altro che remota. E ancora: è vero che i politici italiani non schiodano dalla poltrona neppure a seguito di una condanna, ma è altrettanto vero che è difficile trovare altrove l’equivalente dei vari Di Pietro, Ingroia, Emiliano, Casson e altri che hanno cavalcato la popolarità delle loro inchieste per successive fortune politiche. E si potrebbe continuare all’infinito. La realtà è che l’isolamento è il guscio a protezione del magistrato, la condizione in cui egli matura il libero convincimento, cui non è estranea la tormentata consapevolezza di racchiudere nel palmo della propria mano il destino di altri uomini. Tuttavia, non tutti i magistrati l’apprezzano. Non pochi, infatti, preferiscono dare di gomito e ammiccare all’opinione pubblica dopo averla opportunamente eccitata con libri, interviste e prese di posizione. Sembrano politici. L’unica differenza è che non li ha eletti nessuno. E scusate se è poco.

 

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